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Buon pomeriggio.
Negli ultimi 10 anni
diversi governi occidentali
hanno introdotto nuove leggi
o rafforzato la legislazione esistente
per criminalizzare le organizzazioni terroristiche.
Sappiamo che questa è una misura
molto logica da prendere
per cercare di fermare il diffondersi
del terrorismo nel mondo.
Il problema è che queste leggi non fanno una distinzione
tra sostegno intenzionale e non intenzionale
nei confronti di un gruppo terroristico,
di modo che per ogni servizio e ogni elemento
che finisca nelle mani di un gruppo
iscritto in una lista di organizzazioni terroristiche,
chiunque sia responsabile di aver fornito quel supporto
potrebbe essere ritenuto responsabile dal punto di vista penale.
Ciò è fonte di grande preoccupazione
per le organizzazioni umanitarie
perché molte intendono lavorare proprio in aree
che potrebbero essere controllate da gruppi terroristici.
Nessuna organizzazione umanitaria è in grado di affermare
che il 100% degli aiuti
giunga ai destinatari.
Questo problema lo vediamo, ad esempio,
nelle regioni della Somalia controllate da Al Shaabab,
dove certe organizzazioni umanitarie
non provano neanche a negoziare l'accesso.
Questo problema solleva la questione, molto più rilevante,
delle conseguenze non intenzionali degli aiuti umanitari
e della risposta a queste da parte delle organizzazioni umanitarie
perché nonostante abbiano uno scopo umanitario,
gli effetti collaterali degli aiuti,
come il contributo all'economia di guerra
o la legittimazione di certi leader, in certe aree, non sono intenzionali
ma di fatto, le parti in conflitto
hanno spesso usato gli aiuti umanitari per perseguire interessi propri.
Da molti punti di vista, la criminalizzazione degli aiuti umanitari
diretti ai nemici di qualcuno in Somalia
è solo il rovescio della medaglia, rispetto all'uso degli aiuti
per conquistare la fiducia della popolazione civile in Afghanistan.
In entrambi i casi, gli aiuti umanitari sono da considerare
un'arma da guerra,
e sono proprio quelli che hanno un bisogno disperato di quegli aiuti
a pagarne le conseguenze,
perché in Somalia
molti non ricevono gli aiuti umanitari
mentre in Afghanistan
molti villaggi sono stati attaccati e puniti
per aver accettato aiuti pensati
per guadagnarsi l'obbedienza della popolazione.
Le organizzazioni umanitarie,
in questo processo, sono state complici
allo stesso tempo consapevoli e inconsapevoli.
Da un lato deplorano,
la strumentalizzazione degli aiuti in determinate circostanze,
e dall'altro tendono a diventare parte integrante del problema.
Ma ora che ci stiamo trovando molto spesso di fronte a situazioni
in cui l'accesso alle popolazioni in certe aree
è sempre più difficile, come ad esempio in Pakistan,
in Afghanistan e in Somalia,
è tempo che le organizzazioni umanitarie inizino a pensare seriamente
ad un nuovo approccio, un approccio diverso.
Secondo me, le organizzazioni umanitarie
devono concentrarsi oggi su due cose.
Per prima cosa,
bisogna riconoscere che gli interventi umanitari
sono minati da un paradosso fondamentale.
Questi interventi a volte prolungano una guerra e, con essa,
anche le sofferenze che intendevano invece alleviare.
L'esempio più evidente
è proprio il gesto che sta alla base
della Fondazione del Movimento della Croce Rossa:
salvare un soldato ferito sul campo
e prestargli soccorso.
Questa è l'equipe chirurgica da campo
della Commissione Internazionale della Croce Rossa
che operava a Darfur, nel 2008.
Nessuna legge dice
che i soldati, una volta guariti
non possano tornare a combattere.
Salvare la vita a un soldato, significa quindi permettergli
di prendere nuovamente parte al conflitto, prolungandolo.
Ma questo è il prezzo che
le organizzazioni umanitarie pagano
per introdurre un po' di umanità
nella guerra, che è disumana.
Noi crediamo fermamente che sia meglio correre il rischio
di vedere un soldato ferito e poi guarito tornare a combattere,
piuttosto che condannare tutti i feriti a morire sul campo.
Per fortuna, i governi occidentali hanno riconosciuto questo principio,
perché le leggi antiterrorismo
garantiscono a chi presta assistenza medica l'immunità dal procedimento penale,
che è quello che volevamo.
Ma ci sono molti altri aspetti degli interventi umanitari
che in questa legge non risultano esenti
e ci sono molti altri modi
in cui gli aiuti umanitari possono contribuire
a prolungare un conflitto.
Un esempio estremo è quello
dei campi di rifugio in Ruanda
creati ai confini di questa nazione nel 1994,
e usati dai responsabili del genocidio,
l'esercito ruandese e le milizie Interahamwe,
come basi
per sferrare attacchi in Ruanda,
nel tentativo di portare a termine il genocidio
iniziato nell'aprile dello stesso anno.
Le truppe assunsero il controllo
dei campi di rifugio
ed usarono gli aiuti umanitari
per soggiogare la popolazione.
Ai rifugiati veniva impedito il ritorno in Ruanda
e chi controllava i campi realizzò enormi guadagni
grazie agli aiuti umanitari.
Per fortuna,
il Ruanda rappresenta un'eccezione.
Non credo ci sia nessun altro Paese
in cui gli aiuti abbiano prolungato i conflitti.
Quando si pensa alle risorse
militari ed economiche
fornite dai regimi alleati alle parti belligeranti,
quando pensiamo alle rimesse
che derivano dalle diaspore,
al contrabbando,
al traffico di stupefacenti e alla pirateria,
tutti questi fattori sono di gran lunga più significativi degli aiuti umanitari
nel contribuire al prolungarsi di un conflitto.
Il Ruanda, questi campi, sono l'eccezione, non la regola.
Questo, però, non assolve
le organizzazioni umanitarie,
che devono in ogni caso domandarsi
chi sarà a trarre beneficio
dagli aiuti umanitari forniti.
Bisogna sempre chiedersi se questi aiuti faranno più male che bene.
Se ci si rende conto che il danno è maggiore del beneficio,
cosa per la quale, ad esempio, Medici senza Frontiere
si è battuta nei ampi di rifugiati, allora diventa molto importante
essere in grado di fermare il flusso degli aiuti.
E penso che se le organizzazioni umanitarie, invece di dichiarare
principi umanitari a gran voce,
in tutto e per tutto
seguissero veramente quei principi
e se fossero più coerenti su tutta la linea,
se ne ricaverebbero dei vantaggi.
Questo mi porta al secondo punto del discorso, ovvero l'importanza fondamentale
del principio di neutralità per le missioni umanitarie.
A partire dall'11 settembre,
molte organizzazioni hanno rifiutato il principio di neautralità,
preferendo invece indirizzare gli aiuti
in conformità con le agende politiche occidentali;
questo si è visto specialmente in Iraq e Afghanistan.
E non è la prima volta
che succede.
Durante la guerra fredda,
molte organizzazioni erano inclini ad aiutare rifugiati
per i quali sentivano una certa affinità politica.
Ci sono state organizzazioni umanitarie di destra
che hanno aiutato i Contras
nei campi in Nicaragua e in Honduras,
mentre dall'altro lato del Paese, organizzazioni di sinistra
aiutavano i Sandinisti.
Niente di nuovo, quindi,
ma una delle lezioni che abbiamo imparato
dagli anni '80, dallo schieramento con una delle parti in conflitto,
è stata
che spesso gli eroi di oggi
diventano i signori della guerra di domani.
Questa è, credo, la situazione in cui si trovano le organizzazioni umanitarie
oggi in Afghanistan.
Cercano di evitare
di schierarsi troppo apertamente con una delle due parti,
cercando di aprirsi invece al dialogo
con l'opposizione armata
per ottenere l'accesso agli strati della popolazione
più bisognosi di assistenza umanitaria.
Non c'è una morale...
Mantenere una posizione neturale non vuol dire
essere moralmente superiori.
La neutralità è semplicemente uno strumento
di cui le organizzazioni umanitarie si servono
per riuscire a raggiungere
chi ha più bisogno di aiuto.
Criminalizzare gli interventi umanitari,
o gli aiuti alimentari, solo perché
una parte potrebbe finire
nelle mani sbagliate,
è non solo immorale, ma anche estremamente avventato;
sul sito del Guardian,
è stato recentemente aggiunto un video
che mostra come Al-Quaeda
abbia iniziato a raccogliere consensi
in Somalia proprio attraverso gli aiuti.
Penso che problemi d i questo tipo continueranno a presentarsi
in altri programmi di assistenza,
in cui l'interesse
delle popolazioni destinatarie degli aiuti
non è certo l'obiettivo principale
che chi fornisce gli aiuti intende perseguire.
Credo sia necessario, oggi, che le organizzazioni umanitarie
prendano una decisione:
devono decidere se è giusto che
gli aiuti umanitari vengano usati per influenzare chi è più vulnerabile,
o se debbano essere garantiti
solo in base a un criterio di umanità.
Le organizzazioni umanitarie non possono lamentarsi
della strumentalizzazione degli aiuti da un lato
e dall'altro contribuirvi e parteciparvi.
Devono fare una scelta
e agire di conseguenza.
Grazie.
(Applausi)