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Negli ultimi 13 anni, praticamente la mia intera carriera professionale,
mi sono dedicato ad ascoltare storie di persone,
di gruppi di lavoratori, di diversa provenienza.
Storie carine, storie tristi, storie di conflitto,
storie divertenti, di situazioni che il mondo del lavoro ci regala.
Spesso non ci si rende conto di ciò che sta succedendo.
La realtà supera ampiamente l'immaginazione.
Sicuramente tutti voi avete vissuto situazioni sul posto di lavoro
che mai avreste immaginato fino a che
non vi ci siete trovati faccia a faccia.
Ho ascoltato storie di macellai, di maestre, di dirigenti,
di funzionari pubblici, di capi, di direttori.
E ho anche ascoltato molti sindacalisti, ispettori del lavoro
e datori di lavoro che ogni giorno si fanno molte domande
su come generare un mondo lavorativo che includa,
spesso, le variabili più umane.
Un elemento che risulta evidente, secondo Christophe Dejours,
uno psichiatra francese che dirige il mio lavoro di dottorando in questo momento,
è che non esiste neutralitá nel lavoro:
il lavoro o ci fa bene o ci fa male.
Il lavoro non può non farci niente.
Il lavoro ci può insegnare cose nuove.
Possiamo dimostrare a noi stessi di cosa siamo capaci.
Possiamo creare nuovi legami e regole di cooperazione.
Possiamo dare un contributo alla società che prima non esisteva.
Possiamo creare ricchezza che prima non esisteva.
Possiamo addirittura arrivare all'emancipazione nel lavoro.
O al contrario, il lavoro ci può far perdere
la fiducia in noi stessi.
Il lavoro ci può mettere sulla difensiva al punto
da non poter far altro che proteggerci
dai nostri colleghi, o dai nostri capi, o dai nostri dipendenti.
Ed attaccare i nostri colleghi,
i nostri dipendenti ed i nostri impiegati.
Possiamo essere molestati. Possiamo morire mentre andiamo al lavoro.
Possiamo trovare molte forme di sofferenza psicopatologica e fisica
attraverso malattie professionali
che possono essere causate dal lavoro.
Negli ultimi 30 anni, sono comparse tutta una serie
di nuove psicopatologie e patologie
derivanti da sovraccarico lavorativo.
Ci sono cose che succedono oggi nel mondo del lavoro
che per i nostri nonni e i nostri genitori
sarebbero state impensabili.
Oggigiorno ci troviamo davanti ad un'accelerazione del ritmo del lavoro
che si sta delineando da tempo.
Con una valutazione individuale della performance,
mentre uno non lavora mai completamente solo,
ed un mercato del lavoro, a livello internazionale, sempre più flessibile.
Diciamo che, pensandoci, ci si ritrova
una carriera professionale che ha, e ha avuto, diversi stati
e sono poche le persone che, oggigiorno, sul lavoro
possono sentirsi tranquille e sicure
sapendo che ci resteranno per un lungo periodo.
Tutto questo sta generando nuove psicopatologie.
La più conosciuta è il "burnout", ossia "la sindrome dello stressato"
che sicuramente in molti conoscete.
Un altra è il karoshi, una parola giapponese,
che significa morte per sovraccarico da lavoro.
Ci son persone giovani, senza antecedenti medici o familiari
di problemi cardiovascolari che hanno attacchi cerebrovascolari
e muoiono, e l'unica spiegazione è che il sovraccarico di lavoro
ne abbia causato la morte.
Qualcosa di abbastanza drammatico che è apparso negli ultimi 7-8 anni
in forma più ricorrente, sono i suicidi sul posto di lavoro.
Non a casa, per qualcosa che è successo al lavoro,
ma proprio persone che, sul posto di lavoro, organizzano una riunione con i colleghi.
e si sparano un colpo, o aprono la finestra e si lanciano nel vuoto,
o nel vano dell'ascensore e lasciano lettere dove spiegano
che lo hanno fatto per il lavoro o per le situazioni che stavano vivendo
sul posto di lavoro e che non riuscivano più a sopportare.
Tre settimane fa, ho avuto la possibilità di assistere ad un colloquio
sui suicidi sul posto di lavoro a Parigi
ed il numero di casi è molto alto ed allarmante.
E non si limita all'America Latina, o all'Europa,
ma ci sono stati casi in Giappone, a Taiwan, in Canada,
in Australia, dove si sono verificate situazioni di questo tipo.
Ma non sono venuto qui per essere fatalista.
Perché, come ho già detto, il lavoro può dar vita al peggio,
ma il lavoro può anche farci del bene.
Solo attraverso il lavoro è stata generata, si genera, e si genererà ricchezza.
Solo tramite il lavoro possiamo dare il nostro contributo alla cultura.
Solo attraverso il lavoro possiamo provare a noi stessi
quel che possiamo fare da soli o in gruppo.
Quello che un gruppo è capace di fare,
lo può fare tramite il lavoro.
Ma affinché il lavoro possa creare il meglio
e possa rafforzare l'identità e la costruzione
della soggettività e del rafforzamento di chi sono io
non possiamo prescindere da qualcosa di molto importante
ossia la costruzione congiunta di regole.
Quando iniziamo a vedere disaccordo o situazioni
nel lavoro che ci impediscono di vivere ciò che vogliamo vivere
in quello spazio, è importante poterne parlare.
Ma sappiamo che non sempre è facile, tutti sappiamo che il mondo del lavoro
è intriso di dominazione,
ci sono spazi dove non si può parlare,
ci sono cose delle quali non si deve parlare.
Soprattutto della sul posto di lavoro, spesso
spesso non se ne deve parlare per paura di essere esclusi dal gruppo.
E per questo è necessario poter generare un'azione collettiva.
E questo è ciò che oggi vorrei invitarvi a fare.
Perché non sono solo i lavoratori e i loro rappresentanti
che devono parlare delle sofferenze sul posto di lavoro ma
esiste anche una responsabilità dello Stato.
Per esempio, in Argentina non esistono comitati misti di salute e sicurezza
sul lavoro obbligatori a livello nazionale, per dirne una tra tante.
Anche la partecipazione dei datori di lavoro, che sono tra i principali attori
che creano questo tipo di intensificazione del lavoro e della flessibilità
e la valutazione individuale di una performance permanente.
Ma non si limita a questo mondo perché, giustamente,
come appena detto, il mondo del lavoro è intriso
di dominazione ed è necessario che anche altri attori
che influenzano l'arena politica
o che partecipano al dibattito pubblico, parlino di questo tema.
In particolare, giornalisti, registi, drammaturghi,
artisti di qualsiasi orientamento, che possano partecipare al dibattito
su queste questioni, hanno un ruolo centrale.
E questo sta già succedendo, tramite documentari e film
che riportano molte di queste situazioni che si verificano oggi
e che prima erano impensabili.
Attraverso la possibilità di costruire una nuova collaborazione,
si apre la possibilità di trasformare il lavoro nel motore
che rafforza la nostra salute.
Così come ho detto che il lavoro non è neutro,
nel senso che o ci fa bene o ci fa male,
è grazie al lavoro che costruiamo la nostra identità.
Il lavoro è una seconda opportunità per poter provare
a noi stessi ciò di cui siamo capaci
per sviluppare la nostra intelligenza.
E quando parlo di intelligenza, non mi riferisco solo all'intelligenza individuale,
ma parlo anche dell'intelligenza collettiva, dell'intelligenza sociale,
del contributo che, come generazione, lasceremo ai nostri figli,
ai ragazzi di cui siamo zii o nonni,
a coloro che verranno dopo di noi.
Oggi la situazione è abbastanza critica,
ma non perdiamo la speranza nella possibilità
di costruire reti che rafforzino questa possibilità.
Di questo volevo parlarvi oggi, vi ringrazio molto del vostro tempo
e vi invito a lasciarci con questa domanda:
In quale misura sto lasciando io oggi, con il mio lavoro,
un'impronta che ha a che fare con me,
con ciò che sogno, e con ciò che vorrei costruire con gli altri.
L'invito è di poter iniziare a parlare di tutto questo,
a parlare di lavoro in contesti dove sia possbile
iniziare a trasformare qualcosa, per vivere in un posto di lavoro,
un'organizzazione, una città, un Paese, un'umanità
che abbia a che vedere con l'impronta che vogliamo lasciare
e non con un lascito che, a causa della vittimizzazione,
pensiamo ci stia escludendo.
Molte grazie.
(Applausi)