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SILO, PENSIERO ED OPERA LETTERARIA
TEATRO GRAN PALACE, SANTIAGO DEL CILE, CILE. 23 MAGGIO 1991
Ringrazio innanzitutto la casa editrice Planeta
ed i numerosi amici che mi hanno invitato
a parlare su alcuni scritti pubblicati in questi giorni
e ai quali è stata dedicata una nuova collana.
E, ovviamente, ringrazio tutti voi per essere qui presenti.
In varie conferenze tenute in differenti paesi
abbiamo commentato
i diversi libri uno alla volta
via via che venivano pubblicati;
oggi, invece,
cercheremo di dare una visione globale
delle idee che costituiscono
la base su cui queste opere sono costruite.
Spero che non risulti troppo noioso.
Dovremo, tuttavia, menzionare
alcune caratteristiche
proprie di ciascuno dei quattro volumi che oggi presentiamo,
in quanto essi non sono uniformi né per tematica né per stile.
Come vedremo,
gli interessi che hanno motivato le quattro opere sono diversi,
e le forme espositive spaziano dalla prosa poetica di Umanizzare la terra
al racconto breve delle Esperienze guidate,
dall’esegesi di Miti-radice universali
al saggio di Contributi al pensiero.
Soffermandomi brevemente su ciascun volume,
dirò che il primo, Umanizzare la terra,
è una trilogia
di testi scritti in tempi successivi: nel 1972, nel 1981 e nel 1988.
Mi sto riferendo ad opere che sono circolate separatamente con i seguenti titoli: Lo sguardo interno,
Il paesaggio interno
ed Il paesaggio umano.
Umanizzare la terra
si divide nei tre libri menzionati
che, a loro volta, si suddividono in capitoli
e questi ultimi in paragrafi numerati.
In generale il discorso svolge una funzione esortativa
grazie al ricorso a proposizioni imperative
che conferiscono una certa durezza al testo.
Per fare ammenda di tale durezza, ricordo la frequenza
con la quale nel testo ricorrono frasi esplicative
che permettono al lettore di effettuare un confronto
tra quanto viene enunciato e le proprie esperienze.
Quest’opera alquanto polemica
presenta però una difficoltà ancora più grande,
che è quella che le deriva da una deliberata forzatura
della lingua spagnola;
è vero che tale espediente
ha permesso di creare un’atmosfera consona alle emozioni
che si cercava di trasmettere, però comporta l’insorgere di problemi di significato
e quindi di una comprensione adeguata,
come è chiaramente apparso
al momento della traduzione di questa opera in altre lingue.
In definitiva Umanizzare la terra è un opera di pensiero,
In definitiva,
scritta in prosa poetica,
che verte sugli aspetti più generali della vita umana.
Essa utilizza un continuo spostamento del punto di vista:
dalla dimensione dell’interiorità personale
alla dimensione interpersonale e sociale,
con esortazioni a superare il nonsenso della vita
e a dedicarsi, con impegno militante,
all’umanizzazione del mondo.
Il secondo volume, intitolato Esperienze guidate, è stato redatto nel 1980.
Si tratta di un insieme di racconti brevi
scritti in prima persona.
Ma è necessario chiarire che questa “prima persona”
non è quella dell’autore,
come quasi sempre succede,
bensì quella del lettore.
Questo risultato è stato ottenuto grazie all'ambientazione dei singoli racconti
che funziona come una sorta di cornice affinché il lettore
riempia la scena con i propri contenuti e se stesso.
Quest’operazione è facilitata dalla presenza nel testo
di asterischi
che, indicando delle pause, permettono di introdurre mentalmente
le immagini personali; in tal modo un osservatore passivo si trasforma in attore
e coautore delle diverse storie.
Nelle opere letterarie, nelle rappresentazioni teatrali, filmiche o televisive,
il lettore o lo spettatore,
pur identificandosi in modo più o meno completo con i personaggi,
è sempre in grado di distinguere, sul momento o successivamente,
tra l’attore che appare “dentro” la scena
e l’osservatore che ne resta “fuori”,
e che altri non è se non lui stesso.
Nelle Esperienze guidate succede il contrario:
il personaggio principale è l’osservatore, che diventa agente e paziente di azioni ed emozioni.
C'è da aggiungere
che nelle note al testo si forniscono gli elementi
affinché una qualunque persona con un minimo di attitudine letteraria
possa costruire dei nuovi racconti che siano motivo di piacere estetico
o che, meglio ancora, facilitino la riflessione su situazioni esistenziali
che esigono un cambiamento di condotta od una risposta a breve termine
che sul momento non risulta ancora chiara.
A differenza di Umanizzare la terra,
che in prosa poetica trattava di situazioni generali della vita
ed esortava ad incamminarsi in una direzione anch’essa in termini generali,
le Esperienze guidate utilizzano la tecnica del racconto breve
al fine di aiutare il lettore ad ordinare
e ad orientare le proprie azioni
in particolari situazioni della vita quotidiana.
Il terzo volume, Miti-radice universali, è stato scritto nel 1990.
Questo libro non si occupa più di immagini individuali,
come invece era il caso di Esperienze guidate,
ma si dedica a comparare e commentare le più antiche immagini collettive
cui le diverse culture hanno dato forma di miti.
Si tratta di un lavoro di esegesi,
di un’interpretazione
di testi di diversa provenienza
che sono stati sottoposti ad una parziale rielaborazione
nell’intento di colmare i vuoti degli originali
e di superare le difficoltà delle traduzioni di cui ci siamo serviti.
In quest’opera si è cercato di identificare quei miti
il cui argomento centrale avesse mostrato una certa permanenza
nonostante nel tempo si siano modificati i nomi e le caratteristiche secondarie.
Miti di questo tipo, che chiamiamo “radice”,
hanno spesso assunto un carattere universale,
e questo non solo per il grado di dispersione geografica raggiunto
ma anche perché altri popoli li hanno adottati come propri.
Avendo chiara la doppia funzione da noi attribuita all’immagine
da un lato come traduzione di tensioni vitali
e dall’altro come stimolo al comportamento che permetta di scaricare tali tensioni,
l’immagine collettiva plasmata nel mito
ci servirà per capire la base psicosociale su cui esso è costruito.
Ecco dunque che Miti-radice universali ci avvicina
alla comprensione di quei fattori che hanno dato coesione e orientamento
ai gruppi umani
e questo indipendentemente dal fatto che i miti in questione
possedessero una dimensione religiosa
o che costituissero solo delle potenti credenze sociali desacralizzate.
Due saggi, Psicologia dell’immagine, scritto nel 1988,
e Discussioni storiologiche, prodotte nel 1989,
compongono un quarto volume intitolato Contributi al pensiero.
In esso si espongono succintamente i temi teorici
per noi più importanti,
i quali si riferiscono alla struttura della vita umana
e alla storicità che è costitutiva di tale struttura.
Quanto detto fin qui ci
mette in condizione di tentare una presentazione globale
delle idee sulle quali si fondano le nostre singole opere.
Devo però ricordare che è in Contributi al pensiero
che alcune di queste idee si trovano esposte nel modo più rigoroso.
Entriamo dunque in tema
facendo alcune considerazioni riguardo alle ideologie
ed ai sistemi di pensiero.
La nostra concezione non prende l’avvio da affermazioni generali,
ma dall’esame della specificità della vita umana,
della specificità dell’esistenza,
della specificità del vissuto personale del pensare, del sentire e dell’agire.
Questa impostazione rende la nostra concezione incompatibile
con qualunque sistema di pensiero che parta
invece da entità quali l’Idea, la materia, l’inconscio, la volontà, ecc.
Questo perché qualunque verità che si pretenda enunciare a proposito dell’uomo,
della società
o della storia,
deve partire da domande che riguardano direttamente il soggetto che le pone.
In caso contrario, quando parliamo dell’uomo finiamo per dimenticarci di lui,
o per rimpiazzarlo o trascurarlo
quasi volessimo metterlo da parte
perché le sue profondità ci inquietano,
perché la sua debolezza quotidiana e la morte
che lo attende ci gettano in balia dell’assurdo.
In questo senso, le diverse teorie sull’uomo hanno
forse svolto una funzione narcotizzante,
di far distogliere lo sguardo dagli esseri umani reali che soffrono, godono, creano e falliscono:
quegli esseri che sono intorno a noi e che siamo noi stessi:
quel bambino che fin dalla nascita tenderà ad essere trattato come un oggetto,
quel vecchio le cui speranze di gioventù sono ormai infrante.
Non sappiamo che farcene di quelle ideologie che si presentano come la realtà stessa,
o che pretendono di non essere delle ideologie,
e che tentano di screditare la verità che le denuncia come un’ennesima costruzione umana.
Credere che l’essere umano possa o meno incontrare Dio,
possa o meno progredire nella conoscenza e nel dominio della natura,
possa o meno costruire un’organizzazione sociale conforme alla sua dignità,
sono tutte affermazioni che obbligano chi le fa a confrontarsi con la propria esperienza vissuta.
E colui che ammette o rifiuta una qualsiasi concezione, per logica o stravagante che sia,
porrà sempre se stesso in gioco,
precisamente per il fatto di ammettere o di rifiutare.
Parliamo, dunque, della vita umana.
Quando mi osservo,
non da un punto di vista fisiologico ma da un punto di vista esistenziale,
riconosco di trovarmi in un mondo già dato,
da me né costruito né scelto,
di trovarmi in-situazione
nei confronti di fenomeni che, a partire dal mio proprio corpo, risultano ineludibili.
Il corpo, poi, come elemento fondamentale della mia esistenza è, inoltre,
un fenomeno omogeneo al mondo naturale sul quale agisce
e dal quale è “agito”.
Ma la naturalità del corpo
mi si presenta molto diversa da quella di tutti gli altri fenomeni;
infatti: 1. del corpo ho un vissuto diretto, immediato;
2. attraverso il corpo ho un vissuto dei fenomeni esterni;
3. grazie alla mia intenzione, ho una disponibilità immediata delle operazioni il corpo.
Il mondo, d’altra parte, mi si presenta
non solamente come un agglomerato di oggetti naturali
ma come un’articolazione di esseri umani
e di oggetti e segni da essi prodotti o modificati.
L’intenzione che avverto in me mi
appare come un elemento interpretativo fondamentale
del comportamento degli altri;
e proprio come costituisco il mondo sociale
comprendendone le intenzioni,
così da esso sono costituito.
Ovviamente stiamo parlando di intenzioni
che si manifestano attraverso azioni corporee.
E’ grazie alle espressioni corporee
o alla percezione della situazione in cui l’altro si trova
che posso comprenderne i significati, le intenzioni.
Inoltre, gli oggetti naturali e quelli umani
mi producono o piacere o dolore;
e cerco di collocarmi di fronte ad essi per modificare la mia situazione.
Pertanto non sono affatto chiuso al mondo naturale
ed umano:
anzi, la mia caratteristica fondamentale è precisamente l’”apertura”.
La mia coscienza si è configurata su una base intersoggettiva:
usa codici di ragionamento,
modelli emotivi,
schemi di azione che sento come “miei”
ma che riconosco anche in altri.
E, ovviamente, il mio corpo è aperto al mondo
in quanto il mondo io lo percepisco e su di esso agisco.
Il mondo naturale, a differenza dell’umano,
mi appare privo di intenzioni.
Ovviamente posso immaginare
che le pietre, le piante o le stelle posseggano un’intenzione,
ma in ogni caso, un effettivo dialogo con esse mi risulta impossibile.
Anche gli animali, nei quali a volte scorgo la scintilla dell’intelligenza,
mi appaiono impenetrabili,
soggetti a trasformazioni lente e sempre all’interno di quella che è la loro natura.
Vedo società di insetti totalmente strutturate,
mammiferi superiori che usano rudimenti tecnici,
ma tutti ripetono i loro codici in lenta modificazione genetica
come se fossero sempre i primi rappresentanti delle loro rispettive specie.
E nelle virtù dei vegetali
e degli animali modificati ed addomesticati dall’uomo,
riconosco l’intenzione umana ed il suo avanzare nell’opera di umanizzazione del mondo.
Definire l’uomo sulla base della sociabilità mi risulta insoddisfacente
in quanto questo aspetto è comune a numerose specie animali;
né la sua caratteristica fondamentale può essere la sua capacità lavorativa
perché esistono animali che la possiedono maggiormente;
neanche basta il linguaggio a definire l’essenza umana
perché sappiamo che in varie specie animali esistono codici e forme di comunicazione.
In cambio,
nel fatto che ogni nuovo essere umano trova un mondo modificato da altri
e viene costituito da un mondo dotato di intenzioni,
scopro la sua capacità di accumulare ed incorporare la dimensione temporale;
scopro cioè la sua dimensione storico-sociale
e non semplicemente sociale.
Date queste premesse, tenterò una definizione. Questa:
“L’uomo è un essere storico
che trasforma la propria natura attraverso l’attività sociale.”
Ma se ammetto come valida questa definizione, dovrò ammettere
che l’essere umano può trasformare intenzionalmente anche la propria struttura fisica.
Ma questo sta già accadendo.
Ha iniziato con l'utilizzo di strumenti
che posti davanti al suo corpo come "protesi" esterne
gli hanno permesso di ampliare le funzioni delle mani,
di affinare i sensi,
di aumentare la potenza e la qualità del suo lavoro.
Dal punto di vista naturale, l’uomo non era adatto alla vita nell’acqua o nell’aria;
ciò nonostante è stato capace di creare le condizioni per muoversi in esse,
ed oggi sta iniziando a emigrare dal proprio ambiente naturale, il pianeta Terra.
Oggi, inoltre, l’uomo sta intervenendo sul suo stesso corpo
sostituendone gli organi,
modificando la chimica cerebrale,
sviluppando la fecondazione in vitro, manipolando i geni.
Se con l’idea di “natura” umana
si è voluto indicare ciò che c’è di stabile nell’essere umano,
tale idea oggi risulta inadeguata,
anche se la si applica alla parte più oggettuale dell’essere umano,
vale a dire il corpo.
Per quando riguarda poi la validità di una “morale naturale”,
“diritto naturale”,
o istituzioni naturali,
riteniamo all'opposto
che in questi campi tutto sia storico-sociale
e nulla vi esista “naturalmente”.
Parallelamente all’idea di “natura” umana
si è sviluppata l’idea che la coscienza fosse passiva.
Secondo questo modo di pensare, l’uomo
è un’entità che agisce in risposta agli stimoli del mondo naturale.
Ciò che si è manifestata come grossolano sensualismo
poco a poco è stato sostituito da correnti storicistiche
che hanno mantenuto al loro interno la stessa posizione sulla passività della coscienza.
E persino quelle che privilegiavano l’attivismo
e la trasformazione del mondo
all’interpretazione dei fatti,
hanno concepito l’attività umana come il risultato di condizioni esterne alla coscienza.
Questi vecchi pregiudizi
sulla natura umana e sulla passività della coscienza oggi tentano di imporsi
in una nuova veste, quella del neo-evoluzionismo
che ha come criteri distintivi la lotta per la sopravvivenza
e la selezione naturale che privilegia il più forte.
tale concezione zoologica,
nella sua versione più recente,
trapiantata nel mondo umano,
abbandona le precedenti dialettiche basate sulla razza o la classe sociale
e passa a sostenere una dialettica basata su leggi economiche naturali
che autoregolerebbero tutta l’attività sociale.
Così, ancora una volta,
l’essere umano concreto scompare dalla vista ed è trasformato in cosa.
Abbiamo elencato le concezioni che, per spiegare l’uomo,
partono da dati teorici generali
e sostengono l’esistenza di una natura umana
e la passività della coscienza.
Noi, al contrario,
sosteniamo la necessità di partire
dalla specificità umana;
sosteniamo che l’essere umano è un fenomeno storico-sociale e non naturale,
ed inoltre affermiamo che la coscienza umana è attiva e trasforma il mondo
sulla base dell’intenzione.
Abbiamo inteso la vita umana in-situazione
ed il corpo come un oggetto naturale percepito direttamente
e direttamente sottoposto a numerosi dettami dell’intenzione.
A questo punto si impongono le seguenti domande:
in che senso la coscienza umana è attiva,
secondo quali modalità, cioè, è in grado di applicare le proprie intenzioni al corpo
e attraverso di esso trasformare il mondo?
In secondo luogo,
secondo quali modalità la costituzione umana è storico-sociale?
Queste domande devono trovare risposta a partire dall’esistenza individuale
se non vogliamo ricadere in generalità teoriche,
dalle quali successivamente verrà fatto derivare un sistema di interpretazioni.
Di conseguenza, per rispondere alla prima domanda
si dovrà cogliere con evidenza immediata
come l’intenzione agisca sul corpo,
e per rispondere alla seconda
bisognerà partire dall’evidenza della temporalità
e dell’intersoggettività dell’essere umano,
e non da leggi generali della Storia e della società.
Passiamo dunque al primo punto.
Per allungare un braccio,
aprire una mano e prendere un oggetto,
ho bisogno di ricevere informazioni sulla posizione del mio braccio e della mia mano.
Queste mi arrivano grazie a percezioni cinestesiche e cenestesiche,
cioè percezioni provenienti dall’intracorpo,
il quale è dotato di sensori che eseguono compiti specializzati,
proprio come fanno i sensori tattili, uditivi, gustativi, visivi, olfattivi dei sensi esterni.
Ho anche bisogno di mettere insieme dei dati visivi
riguardanti la distanza tra il mio corpo e l’oggetto.
In altre parole, prima di estendere il braccio
debbo raccogliere una complessa
quantità di informazioni, una “struttura di percezioni”
e non una semplice somma di percezioni separate.
Così, mentre mi dispongo a prendere un oggetto,
effettuo anche una selezione dell’informazione, scartando quella che al momento non mi serve.
Per il fatto di dirigere una struttura di percezioni, conforme all’intenzione di prendere un oggetto,
la concezione secondo cui mi limito a rimanere passivo mentre percepisco, è inadeguata.
Tutto ciò mi diventa più chiaro quando passo ad eseguire il movimento e lo
aggiusto grazie adi dati che i sensi mi forniscono con un meccanismo di retroalimentazione
Mettere in movimento il braccio
e riaggiustare la traiettoria
neanche la semplice percezione è in grado di spiegarlo.
Per evitare che in questo studio si confondano le diverse sensazioni,
una volta collocatomi di fronte all'oggetto,
decido di eseguire ad occhi chiusi le operazioni con il mio braccio e la mia mano.
Sperimento nuovamente le sensazioni interne ma, in assenza della vista,
il calcolo della distanza mi risulta difficile.
Se rappresentandolo, sbaglio la posizione dell’oggetto, se cioè lo immagino
in un luogo diverso da quello in cui esso si trova realmente,
sicuramente la mia mano non riuscirà a prenderlo.
La mia mano, cioè, si muoverà nella direzione “tracciata” dall’immagine visiva.
Altrettanto posso esperire con gli altri sensi esterni
che traggono informazioni dai fenomeni:
anche ad essi corrispondono delle immagini
che sono, apparentemente, delle “copie” delle percezioni.
Posso infatti contare su immagini gustative, olfattive, ecc.,
così come su immagini corrispondenti ai sensi interni,
quali posizione, movimento, dolore, acidità, pressione interna, ecc.
Se approfondisco questo aspetto,
scopro che sono proprio le immagini a determinare le attività del corpo,
e che esse, pur riproducendo la percezione,
sono dotate di una grande mobilità:
sono instabili e tendono a trasformarsi sia volontariamente che involontariamente.
A questo punto devo ricordare che per la Psicologia ingenua
le immagini erano qualcosa di passivo
e la sua unica funzione costituire il fondamento dei ricordi;
pertanto, mano a mano che esse si allontanavano dalla “dittatura” della percezione,
finivano per cadere nella categoria degli errori privi di significato.
A quei tempi tutta la pedagogia
si basava sulla crudele ripetizione a memoria dei testi
mentre la creatività e la comprensione ridotte al minimo
giacché, come abbiamo osservato, la coscienza era considerata passiva.
Ma andiamo avanti.
E’ evidente che anche dell’immagine ho una percezione,
che mi permette di distinguere un’immagine dall’altra
proprio come distinguo una percezione dall’altra.
O forse non mi risulta possibile ricordare delle immagini,
rappresentare cose immaginate in precedenza?
Vediamo. Se adesso, con gli occhi aperti,
effettuo l’operazione di prendere un oggetto,
non mi sarà agevole percepire l’azione dell’immagine che va sovrapponendosi alla percezione;
ma se immagino l’oggetto
in una posizione falsa,
nonostante abbia visto e conosca la sua posizione vera,
la mia mano si muoverà di slancio verso ciò che ho immaginato
e non verso ciò che ho visto.
Quindi è l’immagine a determinare l'attività nei confronti di un oggetto
e non la semplice percezione.
Si può replicare utilizzando l’argomento dell’arco riflesso corto,
che non passa per la corteccia cerebrale
ma si chiude a livello di midollo,
dando origine ad una risposta ancor prima che lo stimolo possa essere analizzato.
Ma se con questo si vuol dire
che esistono risposte automatiche
che non richiedono l’attività della coscienza,
noi stessi possiamo citare un gran numero di operazioni involontarie,
naturali,
comuni tanto al corpo umano che a quello di diversi animali.
Solo che in questo modo non si fornisce alcuna spiegazione al problema dell’immagine.
Sul tema delle immagini che si sovrappongono alla percezione,
aggiungeremo questo,
aggiungeremo che si tratta di un fenomeno che si dà in tutti i casi,
anche se non riusciamo ad osservarlo.
Dobbiamo anche considerare che,
per il solo fatto di aver immaginato visivamente il movimento del braccio,
questo non risponde.
Il braccio si muove
quando viene lanciata nell’intracorpo un'immagine
che corrisponde alle percezioni interne del livello in cui si produce il movimento.
L’immagine visiva, invece,
traccia la direzione lungo la quale il braccio tenderà a spostarsi.
Queste affermazioni trovano conferma nel fatto che durante il sonno
il corpo del dormiente,
nonostante il gran proliferare di immagini,
permane quieto.
E’ chiaro che il suo paesaggio di rappresentazione si è “interiorizzato”,
per cui le sue immagini si dirigono verso le cappe più interne dell’intracorpo
e non verso gli strati muscolari.
Nel sonno i sensi esterni tendono a disattivarsi,
e lo stesso vale per le loro immagini.
Se si cita il caso dell’agitazione che accompagna gli incubi o il sonnambulismo,
risponderemo che dal livello di sonno profondo si passa a quello di dormiveglia attivo;
qui i sensi esterni si mettono in funzione
e le immagini cominciano ad “esteriorizzarsi”
ponendo il corpo in attività.
Non entreremo nel tema dello spazio di rappresentazione,
né in quello della traduzione, deformazione e trasformazione degli impulsi
che del resto sono trattati nel saggio Psicologia dell’immagine.
Quanto abbiamo visto ci permette di avanzare verso altre idee:
come quelle di compresenza, di struttura temporale della coscienza, di sguardo e paesaggio.
Un giorno qualsiasi entro nella mia stanza
e percepisco la finestra: la riconosco, mi è conosciuta.
Ora ne ho una nuova percezione,
ma in me agiscono anche le vecchie percezioni di essa,
ritenute nella memoria sotto forma di immagini.
Oggi, però, mi rendo conto
che un angolo del vetro presenta una crepa ...
“quella non c’era”, mi dico,
mettendo a confronto la nuova percezione
con le ritenzioni in memoria relative alle percezioni precedenti.
In più mi succede di provare una specie di sorpresa.
La “finestra” percepita in occasioni anteriori è rimasta impressa nella mia memoria
come ritenzione, ma non passivamente come una fotografia:
essa è attiva ed agisce proprio come agiscono le immagini.
Le ritenzioni in memoria, infatti, agiscono su ciò che percepisco,
nonostante si siano formate nel passato.
Si tratta di un passato sempre attualizzato, sempre presente.
Prima di entrare nella mia stanza davo per scontato,
presupponevo, che la finestra dovesse essere in perfette condizioni;
non lo stavo pensando, semplicemente ci contavo.
La finestra in particolare non era presente nei miei pensieri di quel momento,
ma compresente:
era interna all’orizzonte degli oggetti contenuti nella mia stanza.
E’ grazie al sistema di compresenze,
alla ritenzione in memoria attualizzata e sovrapposta alla percezione,
che la coscienza presume più di quanto percepisca.
In questo fenomeno troviamo il funzionamento più elementare della credenza.
E’ come se, nell’esempio citato, io dicessi:
“Credevo che la finestra fosse in perfette condizioni”.
Se poi, entrando nella mia stanza,
mi fossero apparsi fenomeni propri di un campo differente di oggetti,
per esempio il motore di un aereo o un ippopotamo,
una tale situazione surreale mi sarebbe risultata incredibile:
e non perché quegli oggetti non esistano,
ma perché la loro collocazione sarebbe risultata esterna rispetto al campo di compresenza
corrispondente alle mie ritenzioni.
Riprendiamo l’esempio; io sono entrato nella mia stanza guidato dall’intenzione,
guidato dall’immagine di prendere una penna.
Mentre camminavo, forse non stavo pensando al mio obiettivo,
ma le immagini di ciò che dovevo raggiungere in un futuro immediato
continuavano in ogni caso ad agire in compresenza.
Il futuro della coscienza era attualizzato, stava nel presente.
Sfortunatamente ho trovato il vetro rotto
e le mie intenzioni si sono modificate per la necessità di risolvere un'altra urgenza.
Ebbene, in qualsiasi istante presente della mia coscienza
posso osservare l’incrociarsi
l'incrociarsi di tre tempi differenti,
di ritenzioni e di futurizzazioni che agiscono in compresenza e in struttura.
L’istante presente si costituisce nella mia coscienza
come un campo temporale attivo dato da tre tempi differenti.
Il tempo della coscienza
è molto differente dal tempo del calendario,
dove il giorno di oggi non è toccato da quello di ieri, né da quello di domani.
Nel calendario e nell’orologio
l’“adesso” risulta distinto dal “non più” e dal “non ancora”,
ed inoltre gli avvenimenti sono ordinati uno accanto all’altro
in una successione lineare:
non posso certo dire che ciò costituisca una struttura,
ma di un raggruppamento all’interno di una serie totale che chiamo “calendario”.
Ma su questo punto torneremo quando prenderemo in esame il tema della storicità e della temporalità.
Per adesso continuiamo con un argomento toccato precedentemente,
cioè il fenomeno per cui la coscienza presume più di quel che percepisce,
il fenomeno per cui ciò che viene dal passato, ovvero una ritenzione, si sovrappone alla percezione attuale.
Ogni sguardo che rivolgo ad un oggetto,
produce una percezione deformata dell’oggetto stesso.
Questa affermazione non va presa nello stesso senso in cui la fisica moderna
parla della nostra incapacità di percepire l’atomo
o le lunghezze d’onda al di sopra e al di sotto delle nostre soglie di percezione:
qui ci stiamo riferendo al fenomeno
per cui le immagini delle ritenzioni e delle futurizzazioni
si sovrappongono alla percezione.
E’ per questo che qualunque paesaggio naturale
che osservo - per esempio, un’alba in campagna -
non è determinato in sé
ma sono io stesso a determinarlo,
a costituirlo sulla base dell’ideale estetico cui aderisco.
per contrasto con la vita di città,
o perché al mio fianco c’è qualcuno a cui tengo molto
o, chi sa, perché sembra suggerirmi
la speranza di un futuro aperto.
E se provo una grande pace,
tale sensazione può darmi l’illusione di contemplare il paesaggio in modo passivo
mentre in realtà sono io stesso a mettere attivamente
in gioco numerosi contenuti che si sovrappongono al semplice oggetto naturale.
E ciò non è valido limitatamente a questo esempio:
lo è per ogni sguardo che rivolgo alla realtà.
Abbiamo detto in Discussioni storiologiche
che il mondo costituisce il destino naturale del corpo,
ed è sufficiente osservare come è conformato per verificare questa asserzione.
I sensi, gli apparati di nutrizione, locomozione, riproduzione, ecc.,
sono conformati naturalmente per stare nel mondo;
ma anche l’immagine dispiega attraverso il corpo la sua carica trasformatrice.
E l’immagine non sorge per copiare il mondo,
come riflesso di una situazione data,
bensì, al contrario,
proprio per modificare una situazione precedentemente data.
In questa dinamica, gli oggetti
vengono intesi come ampliamenti o limitazioni delle possibilità corporee,
mentre i corpi estranei
appaiono come dei moltiplicatori di tali possibilità,
in quanto sono governati da intenzioni che si riconoscono
simili a quelle che governano il proprio corpo.
Ma perché l’essere umano ha bisogno di trasformare il mondo
e se stesso?
La ragione sta nella situazione di finitezza e di carenza temporospaziale nella
quale esso si trova e che sperimenta come dolore fisico o sofferenza mentale.
Allora, gli sforzi per vincere il dolore non sono una semplice risposta animale,
ma piuttosto una configurazione temporale in cui prevale il futuro,
che si trasforma in un impulso fondamentale della vita
anche quando questa, in un determinato momento, non si trova in situazione di pericolo.
Pertanto, se lasciamo da parte la risposta immediata, riflessa e naturale,
il differimento della risposta effettuata per evitare il dolore fisico
risultano spinte dalla sofferenza psicologica che sorge di fronte al pericolo
e sono rappresentate come possibilità future o come situazioni attuali
in cui il dolore è presente in altri esseri umani.
Il superamento del dolore appare dunque
come un progetto fondamentale che guida l’azione umana.
E’ questo che ha reso possibile la comunicazione fra corpi ed intenzioni diverse
all’interno di ciò che chiamiamo la “costituzione sociale”.
La costituzione sociale è storica come la vita umana
e configura la vita umana.
La sua trasformazione è continua,
ma si dà in modo diverso rispetto a quanto avviene nella natura,
i cui cambiamenti non sono dovuti ad intenzioni.
L’organizzazione sociale è sottoposta ad una dinamica e ad uno sviluppo continui,
ma tale continuità non si deve solo alla presenza di oggetti sociali,
perché questi, pur essendo portatori di intenzioni umane,
non hanno potuto crescere di per sé soli.
La continuità è data dalle generazioni umane
che non risultano semplicemente poste l’una accanto all’altra.
ma che interagiscono e si trasformano,
Le generazioni, grazie alle quali sono possibili la continuità e lo sviluppo
sono delle strutture dinamiche,
sono il tempo sociale in movimento
senza il quale la società ricadrebbe nello stato naturale e perderebbe la sua condizione di società.
Succede, d’altra parte, che in ogni momento storico
coesistano generazioni di diverso livello temporale,
con ritenzioni e protensioni distinte,
che configurano paesaggi situazionali
e differenti credenze.
Il corpo, il corpo
e il comportamento dei bambini e degli anziani
presenta alle generazioni attive
la situazione da cui esse provengono e quella verso cui vanno;
da parte loro, le generazioni collocate agli estremi di questa relazione triplice
hanno collocazioni temporali che sono anch’esse estreme.
Ma questa è una situazione che non rimane mai statica:
le generazioni attive invecchiano, i vecchi muoiono,
i bambini crescono e vanno ad occupare posizioni attive
mentre nuove nascite ricostituiscono di continuo la società.
Se, per astrazione, si “fermasse” l’incessante fluire,
si potrebbe parlare di un “momento storico”,
rispetto al quale tutti i membri che si trovano collocati in uno stesso scenario sociale
possono essere considerati contemporanei,
cioè viventi in uno stesso tempo.
Ma, come si osserva, essi non sono coetanei rispetto alla temporalità interna,
perché hanno paesaggi di formazione,
situazioni attuali,
e progetti tra loro diversi.
In pratica, la dialettica generazionale
si stabilisce tra le “frange” più contigue
che tentano di assicurarsi il controllo delle attività centrali,
il presente sociale,
per svolgerle secondo i loro interessi e le loro credenze.
E’ la temporalità sociale interna
ciò che spiega strutturalmente il divenire storico,
sul quale interagiscono diverse accumulazioni generazionali
e non una successione di fenomeni posti linearmente uno accanto all’altro
come nel tempo del calendario, secondo quanto ci spiega la storiologia ingenua.
Configuro il mio paesaggio in un mondo storico che si è costituito socialmente,
sempre interpretando quello cui rivolgo lo sguardo.
C’è il mio paesaggio personale,
ma c’è anche un paesaggio collettivo
che corrisponde in un dato momento a grandi insiemi umani.
Come abbiamo detto prima
coesistono, in uno stesso tempo presente, diverse generazioni.
Potremmo affermare, semplificando molto,
che in questo momento esistono quelli che sono nati prima del transistor
e quelli che sono nati tra i computer.
Numerose configurazioni sono diverse nelle due esperienze,
e non solo riguardo al modo di agire
ma anche riguardo a quello di pensare e sentire...
e così i rapporti sociali
o il modo di produzione che funzionavano in una certa epoca,
a volte lentamente, a volte in modo brusco, cessano di funzionare.
Dal futuro ci si attendeva un certo risultato:
ora quel futuro è arrivato,
ma le cose non sono andate
nel modo previsto.
Né il modo di agire, né la sensibilità, né l’ideologia
concordano più con il nuovo paesaggio che si sta imponendo nello scenario sociale.
Per terminare questa esposizione schematica
delle idee espresse nei volumi oggi pubblicati,
dirò che l’essere umano per la sua apertura e per la sua libertà di scegliere fra situazioni,
di differire risposte, di immaginare il futuro,
ha anche la possibilità di negare se stesso,
negare aspetti del proprio corpo,
negarlo completamente come nel suicidio, e di negare gli altri.
Questa libertà ha permesso che alcuni si appropriassero illegittimamente del tutto sociale,
cioè negassero la libertà e l’intenzionalità di altri
riducendoli a protesi, a strumenti delle proprie intenzioni.
Qui sta l’essenza della discriminazione, la cui metodologia
è la violenza nelle sue varie forme: fisica, economica, razziale e religiosa.
La violenza si può instaurare e perpetuare
grazie alla manipolazione dell’apparato di regolazione e di controllo sociale, vale a dire lo Stato.
Proprio per questo, l’organizzazione sociale
richiede un tipo avanzato di coordinazione
che stia al riparo da qualunque concentrazione di potere, sia essa privata che statale.
Ma poiché abitualmente si confonde l’apparato statale
con la realtà sociale,
dobbiamo mettere in chiaro che essendo la società, e non lo Stato,
a produrre i beni,
la proprietà dei mezzi di produzione deve, per coerenza, essere sociale.
Senza dubbio coloro che hanno sottratto ad altri una parte della loro umanità,
hanno provocato nuovo dolore e sofferenza,
ricreando, questa volta in seno alla società, l’antica lotta contro le avversità naturali,
che vede ora da un lato coloro che vogliono “naturalizzare” altri esseri umani, la società e la Storia,
e dall’altro gli oppressi, che hanno bisogno di umanizzarsi umanizzando il mondo.
Per questo, umanizzare
significa uscire dalla oggettivazione per affermare l’intenzionalità di ogni essere umano
ed il primato del futuro sulla situazione presente.
E’ la rappresentazione di un futuro possibile e migliore
che permette di modificare il presente,
e che rende possibile ogni rivoluzione ed ogni cambiamento.
Di conseguenza la pressione di condizioni opprimenti non è sufficiente
a determinare il cambiamento,
ma è necessaria la consapevolezza che esso è possibile
e che dipende dall'azione umana.
Si tratta di una lotta che non si dà tra forze meccaniche,
che non è il riflesso di un fenomeno naturale:
è una lotta fra intenzioni umane.
E’ esattamente questo a permetterci di parlare di oppressori ed oppressi,
di giusti ed ingiusti,
di eroi e codardi.
E’ questa l’unica cosa che permette di dare un senso
alla solidarietà sociale e all’impegno per la liberazione dei discriminati,
siano essi maggioranza o minoranza.
Infine, per quanto attiene al significato degli atti umani,
non crediamo che essi siano una convulsione senza senso,
una “passione inutile”,
un tentativo che si concluderà in modo assurdo.
Pensiamo che l’azione valida sia quella che si fa carico degli altri
esseri umani e della loro libertà.
E neppure crediamo che il destino dell’umanità
sia fissato da un insieme di cause radicate
nel passato che renderanno vano ogni possibile sforzo;
al contrario crediamo che il futuro sarà costruito dall’intenzione,
che, ogni volta più cosciente nei popoli,
apre il cammino che porta alla creazione di una nazione umana universale.
Nient’altro, molte grazie.
Una produzione del Centro di Studi
Punta de Vacas - 2012