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Chiede il Parto Farnaspe
di presentarsi a te.
Venga e s'ascolti.
Valorosi compagni, voi m'offrite un impero
non men col vostro sangue che col mio sostenuto,
e non so come
abbia a raccoglier tutto de' comuni sudori io solo il frutto.
Nel dì che Roma adora il suo Cesare in te,
dal ciglio augusto, da cui di tanti regni il destino dipende,
un guardo volgi al principe Farnaspe. Ei fu nemico;
ora al cesareo piede l'ire depone,
e giura ossequio e fede.
(Tanta viltà, Farnaspe, necessaria non è.)
Madre comune d'ogni popolo è Roma,
e nel suo grembo accoglie ognun che brama farsi parte di lei.
Gli amici onora, perdona ai vinti, e con virtù sublime
gli oppressi esalta ed i superbi opprime.
(Che insoffribile orgoglio! )
Un atto usato della virtù romana vengo a chiederti anch'io.
Del re de' Parti geme fra' vostri lacci prigioniera la figlia.
E ben?
Rasciuga della sua patria il pianto:
a me la rendi, e quanto io reco in guiderdon ti prendi.
Venga il padre: la serbo a lui,
e di lei cura in tanto noi prenderem.
Dopo il fatal conflitto, è ignota a noi del nostro re la sorte.
Ma se a tal segno è Augusto dell'onor suo geloso,
questa cura di lei lasci al suo sposo.
Come! È sposa Emirena?
Altro non manca che il sacro rito.
(Oh dio!) Ma lo sposo dov'è?
Signor, son io.
Prence, della sua sorte la bella prigioniera arbitra sia.
Vieni a lei. S'ella siegue, come credi, ad amarti,
allor... (dicasi pur)
prendila e parti.
Dal labbro, che t'accende di così dolce ardor,
la sorte tua dipende,
dipende la tua sorte
(e la mia sorte ancor).
Mi spiace il tuo tormento;
ne sono a parte, e sento
che del tuo cor la pena, è pena del mio cor.
Dal labbro, che t'accende di così dolce ardor,
la sorte tua dipende, dipende la tua sorte
(e la mia sorte ancor).
Comprendesti, Farnaspe, d'Augusto i detti?
Ei, d'Emirena amante, di te par mi geloso,
e fida in lei.
Amasse mai costei il mio nemico?
Ah, questo ferro istesso innanzi alle tue ciglia vorrei...
No, non lo credo. Ella è mia figlia.
Dalla man del nemico
il gran pegno si tolga che può farmi tremar,
e poi si lasci libero il corso al mio furor.
Paventa, orgoglioso roman, d'Osroa lo sdegno.
Son vinto e non oppresso,
e sempre a' danni tuoi sarò l'istesso.
Sprezza il furor del vento robusta quercia, avvezza
di cento verni e cento l'ingiurie a tollerar.
E se pur cade al suolo, spiega per l'onde il volo,
e con quel vento istesso va contrastando il mar.
Sprezza il furor del vento robusta quercia, avvezza
di cento verni e cento l'ingiurie a tollerar.
Ah, se con qualche inganno non prevengo Emirena,
io son perduto.
Cesare generoso a Farnaspe la rende, ancorché amante.
E se tal fiamma oblia, che ad arte io fomentai,
farà ritorno all'amor di Sabina, il cui sembiante porto sempre nel cor.
Numi, in qual parte Emirena s'asconde?
Eccola. All'arte.
È vero, Aquilio, o troppo credula io sono?
- Il mio Farnaspe è giunto? - Così non fosse!
E perché mai t'affligge la mia felicità?
La tua sventura, principessa, compiango.
Ah, se vedessi di quai furie agitato Augusto è contro te!
Farnaspe a lui ti richiese,
gli disse che t'ama, che tu l'ami;
e mille in seno di Cesare ha destate smanie di gelosia.
Freme, minaccia, giura
che in Campidoglio, se in te non è la prima fiamma estinta,
ei vuol condurti al proprio carro avvinta.
Armati di fortezza.
Io t'insegnai ad evitar il tuo destin funesto.
Misera me, che duro passo è questo!
Principe, quelle sono le sembianze che adori?
Oh Dio! Son quelle,
che sempre agli occhi miei sembran più belle.
(Costanza, o cor!)
Vaga Emirena, osserva con chi ritorno a te.
Più dell'usato so che grato ti giungo:
afferma il vero.
Chi è, signor, questo stranier?
- Straniero? - Nol conosci? - Né sai qual io mi sia?
(Che pena è il simular!)
Non mi sovviene.
Che nuovo stil, bella Emirena, è questo d'accoglier chi t'adora?
- Il tuo Farnaspe... - Tu sei Farnaspe?
Al nome ti riconosco adesso.
Al tuo valore so quanto debba il padre mio.
Rammento più d'una tua vittoria,
e dei meriti tuoi serbo memoria.
Ah, ritorna più presto a scordarti di me.
M'offende meno la tua dimenticanza.
In che t'offendo, se i merti tuoi, se i miei doveri accenno?
(Giusti dèi, qual freddezza! Io perdo il senno.)
Chi m'inganna di voi?
Finge Emirena, o simula Farnaspe?
Esser mentito dee l'amore o l'oblio.
Chi t'inganna io non son.
Dunque son io?
Sul mio cor so ben qual sia
il poter de' sguardi tuoi.
Basta un sol, dell'alma mia
la costanza a indebolir.
Tu nel volto arrossiresti,
e rimorso avresti al core;
io potrei del tuo rossore
lusingarmi e insuperbir.
Sul mio cor so ben qual sia
il poter de' sguardi tuoi.
Basta un sol, dell'alma mia la costanza a indebolir.
Sposo, Augusto, signor,
questo è il momento che tanto sospirai:
giunse una volta, son pur vicina a te.
Soffri che adorno di quel lauro io ti miri,
che costa all'amor mio tanti sospiri.
- (Che dirò?) - Non rispondi?
Perdona: altrove grave cura mi chiama.
Aquilio, io non intendo.
E pur l'arcano è facile a spiegar.
Cesare è amante; questa è la tua rival.
Pietosa Augusta,
se lungamente il cielo a Cesare ti serbi,
un'infelice compatisci e soccorri.
E regno e sposo,
e patria e genitor, tutto perdei.
Misera tu non sei.
Forse ch'io stessa la pietà che mi chiedi, mendicherò da te.
La mia catena...
Non più: lasciami sola.
(Oh dèi, che pena!)
Prigioniera abbandonata,
pietà merto e non rigore.
Ah, fai torto al tuo bel core,
disprezzandomi così.
Non fidarti della sorte:
presso al trono anch'io son nata;
e ancor tu fra le ritorte
sospirar potresti un dì.
Prigioniera abbandonata,
pietà merto e non rigore.
Ah, fai torto al tuo bel core,
disprezzandomi così.
Io piango!
Ah no, la debolezza mia palese almen non sia.
Ma il colpo atroce abbatte ogni virtù.
Vengo il mio bene fino in Asia a cercar:
lo trovo infido, al fianco alla rivale; che in vedermi si turba;
m'ascolta appena, e volge altrove il passo:
né pianger debbo?
Ah, piangerebbe un sasso.
Chi soffre senza pianto
il caro amato oggetto alla rivale accanto,
o non ha core in petto,
o non conosce amor.
Se lo sentiste mai, bell'alme innamorate,
fede per me voi fate del fiero mio dolor.
Chi soffre senza pianto
il caro amato oggetto alla rivale accanto,
o non ha core in petto,
o non conosce amor.
Feroci Parti, al nostro ardir felice arrise il cielo.
Della nemica reggia volgetevi un momento le ruine a mirar.
Pure è sollievo nelle perdite nostre quest'ombra di vendetta.
Oh, come scorre l'appreso incendio,
e quanti al cielo innalza globi di fumo e di faville!
Ah, fosse raccolto in quelle mura, ch'or la Partica fiamma abbatte e doma,
tutto il Senato, il Campidoglio e Roma!
Osroa, mio re!
Guarda, Farnaspe.
È quella opera di mia man.
- Numi! E la figlia? - Chi sa:
fra quelle fiamme, col suo Cesare avvolta,
forse de' torti tuoi paga le pene.
Ah, Emirena, ah, mio bene!
- Ascolta. E dove? - A salvarla e morir.
Come! Un'ingrata, che ci manca di fé,
- pone in oblio... - E spergiura, lo so,
ma è l'idol mio.
Se quel folle si perde, noi serbiamoci, amici, ad altre imprese.
Vadan le faci a terra. Al noto loco ritornate a celarvi.
E pure,
ad onta del mio furor,
sento che padre sono.
Non so quindi partir.
Sempre mi volgo di nuovo a quelle mura.
Eh, non s'ascolti una vil tenerezza.
Ah, forse adesso però spira la figlia,
e forse a nome moribonda mi chiama.
A tempo almeno fosse giunto Farnaspe.
Il lor destin voglio saper.
Dove m'inoltro?
Oh dèi! Di qua gente s'appressa,
di là cresce il tumulto,
è tutto in moto il cesareo soggiorno.
Oh amico! Oh figlia!
Parto? Resto? Che fo?
Senza salvarli mi perderei.
Ma giacché tutto, o numi, volevate involarmi,
questi deboli affetti a che lasciarmi?
A un semplice istante agghiaccio, m'accendo;
non temo, pavento; resisto, m'arrendo;
risolvo, mi pento.
Che istante funesto è questo per me!
Oh dèi! Chi consiglia quest'alma smarrita?
L'amico... la figlia... il regno... la vita...
Ma il rischio s'avanza, e speranza non v'è.
A un semplice istante agghiaccio, m'accendo;
non temo, pavento; resisto, m'arrendo;
risolvo, mi pento.
Che istante funesto è questo per me!
E nessuno sa dirmi, se sia salvo il mio sposo!
Aquilio, dove,
- ah, dov'è Cesare? -Almeno lasciami respirar.
Dove s'aggira? Parla.
- Eccolo. Non sdegnarti. - Emirena vedesti?
- Io te cercai. - Emirena dov'è?
Ne corro in traccia, né ancor m'avvengo in essa.
Misera principessa!
E di te stesso prendi sì poca cura?
Ove t'inoltri fra' notturni tumulti?
Il reo si scopra pria di fidarti.
È già scoperto il reo. Lo conosco. E Farnaspe;
è fra catene: non v'è più da temer.
- Dunque lo stolto... - Se non trovo Emirena, io nulla ascolto.
- Farnaspe! - Principessa!
- Tu prigionier? - Tu salva?
Agl'infelici difficile è il morir.
Di quelle fiamme sei tu forse l'autor?
- No, ma si crede. - Perché?
Perché son Parto, perché son disperato,
in quelle mura perché fui colto.
- E a che venisti? -A salvarti e a morir.
L'ultimo dono forse ottenni dal ciel,
ma non la sorte
che tu debba la vita alla mia morte.
Sola mi lasci a piangere nel mio dolor spietato,
barbaro, ingiusto fato.
Lassa, che fia di me?
Come potrò resistere a sì crudele affanno?
Empi, ben mio, tiranno!
Voglio morir con te.
Sola mi lasci a piangere nel mio dolor spietato,
barbaro, ingiusto fato.
Lassa, che fia di me?
Oh cari sdegni,
oh amabili trasporti d'amore e di pietà,
che mi rendete certo della sua fede,
e tutto il peso a' ceppi miei togliete.
Lieto così tal volta
fra lacci ancor s'ascolta
cantar quell'usignuolo,
se la fedel compagna
risponde al canto, al duolo,
con cui d'amor si lagna,
vago di libertà.
Più non rammenta il nido, sgombra ogni duol dal petto,
e il dolce antico affetto solo spiegando va.
Lieto così tal volta
fra lacci ancor s'ascolta
cantar quell'usignuolo,
con cui d'amor si lagna...
...vago di libertà.
Vi sto ben? Vi comparisco?
Eh, che ti par?
Sembro giusto un amorino
trasformato in contadino,
non è ver, non è ver?
Eh, lo credo. Non giurar.
Ma lasciamo gli scherzi.
Fulvia mia, oggi di qua deve passar quel ladro,
che in abito da donna alla polacca,
si fa chiamar Baldracca,
quel che rubando il mio german tentò torgli la vita;
or io,
perché non mi ravvisi,
da contadin vestita fingo sesso e favella,
e tu fingerti dêi la mia sorella.
Con queste gioie, e queste finte catene d'oro
sarai l'esca per prenderlo in agguato;
già gli amici son pronti al cenno mio.
Ma se non erro,
veggo il furbo venire verso di noi;
fingiamo di dormire.
A una povera polacca,
a Baldracca, bona gente,
(questo dorme e non ci sente)
fate un po' la carità.
Dormono a sonno pieno; meglio è per noi.
Mira costei di quante catene d'oro adorno ha il collo e 'l seno.
Ah, che bella fortuna! Vedi, vedi se puoi sciorne qualcuna.
Scusa, mantiene me a 'ssa criatura, ché io, povera donna,
in questo stato, aggio aji a fatica'.
Eh, Faccenda, bel bello, accostati pian piano
e 'l cappio stacca.
A una povera polacca
fate un po' la carità.
Sciocco, bestia, poltron, giacché fuggisti,
t'avessi portata via la catena già sciolta.
Tornaci, tornaci un'altra volta.
No? Pesce da fiumara,
io v'andrò adesso, e tu a rubare impara.
Con qual destrezza gliela porto via osserva un po'.
Salute a Ussignoria.
A Baldracca,
fate, fate,
bona gente,
un po' la carità.
Perché ridi, mostaccio da sgrugnoni?
Adesso se si sveglia, oh che tempesta!
Prendi, conserva questa.
Ma sœur, voilà, voilà.
Fate un po' la carità.
Ah, voleur! Assassin! Frippon!
Ahilé! Trippona! Star vera, sì signora,
ventra pregnante.
Vous avez dérobé une chaine à ma sœur.
Sbagliate. Star digiuna,
e cena non rubatu mi nisciuna.
Ah, diable!
Non entendira. Tu baisa?
Je suis parisien, fransé, fransé.
Comma? Ti star francisa? Alla larga!
- Où allez vous? - Non t'accostara.
Star gravida, paura de francisa tenir mi creatura.
Venez ici, venez ici.
Nanì, monsù, nanì.
Chi noma avir?
Plusieurs nom...
Prusciutta noma tua?
- Stara noma salata. - Et le votre?
Noma mia star... star soppressata.
- Je n'entends pas. - Mi pane non tenir.
Ah, furbasce, furbasce! Astor! Astor!
Porgila a me, Faccenda, presto, presto col tuo malanno.
Allons, allons, mes chers compagnons!
Ohimè, fuggir non posso;
m'impedisce la pancia.
Spogliate questo vecchio et cett' femm' là.
Oh diavolo! Monsù, farò spogliarmi per ubbidirvi,
ma non permettete, che sia contaminata dalle mani d'indiscreti villani
la mia verginità, ch'io so' zitella.
Bien, bien. Vu spoglierà la mia sorella.
(Qui bisogna farsi animo.)
- Ah, briccone! - Non sia chi s'avvicini: morto per morto.
Date qua un bastone!
La vita, in cortesia!
Cedo, cedo e m'arrendo.
Legatelo, miei fidi!
Oh, caso orrendo!
Ma tu chi sei che tanto mi perseguiti?
Son Livietta.
Mia cara, ah, per pietà.
Voglio vendetta!
Bell'alma mia, perché così sdegnosa con chi t'ama fedel?
Se ti risolvi meco venir, io ti farò mia sposa.
Io sposa ad un infame,
a un ladro, a un assassin!
Con sua licenza, fra questo ed una donna io non fo differenza, se non di modo.
- Come! - E giornalmente, chiunque vi si accosta,
voi non assassinate civilmente?
E voi perché venite a romperci la testa?
Sarebbe bella questa, che avessimo a servirvi,
spassarvi e divertirvi per i begli occhi vostri,
senza cercar mercé.
È un nostro sguardo, un vezzo,
favor che non ha prezzo.
Chi sol mi vuol guardare
pel buco della porta,
m'ha ben da regalare.
Lo faccia, se gli piace: se no, sen vada in pace.
Salute adesso e a me.
E voi perché venite a romperci la testa?
Sarebbe bella questa, che avessimo a servirvi,
spassarvi e divertirvi per i begli occhi vostri,
senza cercar mercé.
Hai ragion, sì signore. Ti sei placata?
Placata? Anzi, piuttosto inviperita.
Non serve:
vo' mandarti al podestà!
Ah, no, per carità!
L'olio vi perdi e l'opera.
Son risoluta.
- Oh Dio! - Ti voglio morto.
È questo, questo il piacer mio.
Misero! A chi mi volgerò?
Sì; a voi, a voi, numi d'Averno,
Proserpine, Plutoni, idre, cerberi, sfingi,
tempestose tempeste,
folgori, lampi e tuoni;
e voi che un palmo avete di coda,
funestissime comete.
Stelle fisse ed erranti,
lune mancanti e piene,
fermate, fermate il vostro corso,
a rimirar le mie tragiche scene.
Ecco il povero Tracollo già vicino a tracollar.
Già mi vedo il laccio al collo,
già mi sento soffogar.
Questo è l'ultimo singhiozzo,
giunta è l'alma al gargarozzo,
già si parte,
già sen va.
Ecco il povero Tracollo
già vicino a tracollar.
Già la morte mi si accosta.
Com'è brutta!
Vedi, vedi con qual faccia mi minaccia,
e da capo sino a' piedi
raffreddar,
tremar mi fa.
Ecco il povero Tracollo
già vicino a tracollar.
Già mi vedo il laccio al collo,
già mi sento soffogar.
Questo è l'ultimo singhiozzo,
giunta è l'alma al gargarozzo,
già si parte,
già sen va.
Ecco il povero Tracollo già vicino a tracollar.
Invano ti lusinghi rimovermi dal mio pensier costante.
Al tuo pregar più s'inasprisce e indura questo mio cor.
Ah, barbara natura! Non v'è dunque speranza?
- È tratto il dado. - Vuoi così, cor di tigre?
A morte io vado.
Vado, vado; ed avrai core di veder chi t'ama tanto,
nelle man della giustizia, qual strozzato pollastrello,
sbatter tutto,
sbatter e palpitar?
Vanne, vanne! Io non ho core. Non so tanto, non so quanto
fra le man della giustizia,
qual strozzato pollastrello, sbatter devi,
sbatter e palpitar.
- Deh, ti placa! - Parli al vento!
- Mi perdona! - Che tormento!
- Vita mia! - Via, via a morir!
Non v'è pietà.
Che martir! Che crudeltà!
- Ed avrai core? - Signor, sì.
- Deh, ti placa! Mi perdona! - Signor, no.
- Vita mia! - Signor, no!
- Che tormento! Via, via a morir! - Che martir! Che crudeltà!
Veramente tu sei, più di quel che credei, sollecita ed attenta.
Estinto appena è l'incendio notturno, e già ti trovo nelle stanze d'Augusto.
Oh Dio, Sabina, che ingiustizia è la tua!
L'amor d'Augusto non è mia colpa; è pena mia.
M'affanno di Farnaspe al periglio:
ecco qual cura mi guida a queste soglie.
Ho da vederlo perir così senza parlarne?
Al fine Farnaspe è l'idol mio.
Vanne: è sicuro. A partirti prepara.
Al maggior fonte de' cesarei giardini col tuo sposo verrò.
Colà m'attendi prima che ascenda a mezzo corso il sole.
Ma verrai? Del destino son tanto usata a tollerar lo sdegno...
Ecco la destra mia; prendila in pegno.
Ah, che a sì gran contento è quest'anima angusta!
Oh me felice! Oh generosa Augusta!
Chi sa; quando lontana Emirena sarà,
forse ritorno farà il mio sposo al suo primiero amore.
- Emirena, mio ben. (Numi, che dissi! ) - Perché fuggi, Adriano?
Un sol momento non mi negar la tua presenza,
e poi torna al tuo ben, se vuoi.
Che vuoi ch'io dica, se tutto mi confonde?
Io già lo veggo ch'hai ragion d'insultarmi.
Ma che pro?
Ero nel campo, quando condotta innanzi mi fu Emirena.
Allor ch'io la mirai carica di catene domandarmi pietà,
bagnar di pianto questa man che stringea,
fissarmi in volto le supplici pupille in atto così dolce...
Ah, se in quell'atto rimirata l'avessi a me vicina,
sarei degno di scusa anche a Sabina.
Ah, questo è troppo.
E dove mai s'intese tirannia più crudele?
Il premio è questo che ho da te meritato? Barbaro!
Mancator! Spergiuro! Ingrato!
Sabina, hai vinto.
Ai tuoi lacci felici tornerò, sarò tuo.
- (Stelle!) - Che dici? - Che son vinto,
che cedo, che ti rendo il mio core.
- Ah, non lo credo. - (Qui bisogna un riparo.)
- S'Emirena una volta torni a veder... - Non la vedrò.
- Ma puoi di te fidarti? - Son risoluto,
e tutto si può, quando si vuole.
A' piedi tuoi l'afflitta prigioniera inchinarsi desia.
Parta Emirena senza vedermi.
Aquilio gliene rechi il comando.
Ah, che dirai, povera principessa!
- Olà! Che parli? - Nulla, signor. Volo a ubbidirti.
Aspetta. Meglio è che il suo destino sappia dalla mia voce.
L'ascoltarla un momento
al fin che nuoce?
Ah, ingrato, m'inganni
nel darmi speranza;
giurando costanza mi torni a tradir.
La fiamma novella scordarti non sai.
T'aggiri, sospiri,
cercando la vai:
lontano da quella ti senti morir.
Ah, ingrato, m'inganni
nel darmi speranza;
giurando costanza mi torni a tradir.
Tolleranza, o mio cor.
La tua vittoria, benché non sia lontana, matura ancor non è.
L'amor d'Augusto, gli sdegni di Sabina combattono per noi.
La pugna è accesa; ma non convien precipitar l'impresa.
Saggio guerriero antico mai non ferisce in fretta.
Esamina il nemico, il suo vantaggio aspetta,
né dal calor dell'ira mai trasportar si fa.
Muove la destra, il piede, finge, s'avanza, e cede,
fin che il momento arriva che vincitor lo fa.
Saggio guerriero antico mai non ferisce in fretta.
Esamina il nemico, il suo vantaggio aspetta,
né dal calor dell'ira mai trasportar si fa.
Qui Sabina non veggo.
A questo fonte l'attender mi prescrisse, e ancor non viene.
- Ecco la sposa tua. - Bella Emirena.
Sei pur tu, caro prence? Il credo appena.
-Al fin, ben mio... - Di tenerezze adesso tempo non è.
Convien salvarsi.
Andate, amici, sicuri a' vostri lidi; la fortuna vi scorga,
amor vi guidi.
Splenda per voi sereno, d'amica stella un raggio;
e al caro lido in seno, vi porti a respirar.
E per me cangi ancora la sorte mia d'aspetto,
destando in qualche petto
quella pietà, che altrui non degno dimostrar.
Splenda per voi sereno, d'amica stella un raggio;
e al caro lido in seno, vi porti a respirar.
Ed è ver che sei mia?
Ne temo, e quasi par mi ancor di sognar.
Non manca, o sposo, per esser lieti appieno,
che ritrovare il padre.
Oh, qual contento nel rivedermi avria!
- Ferma! - Perché?
Non odi qualche strepito d'armi?
Odo, ma donde non saprei dir.
- Da quel cammino istesso che tener noi dobbiamo. - Ahimè!
Non giova l'avvilirsi, ben mio.
Celati intanto che l'armi io scopro e la cagion di quelle.
Che sarà mai? Non mi tradite, o stelle.
Fra l'ombre adesso a raccontar l'altero vada i trofei della sua Roma.
E dove corri, signor, con queste spoglie?
Amico, siam vendicati. È libera la terra dal suo tiranno.
- Ecco il felice acciaro che Adriano svenò. - Come!
Solea l'aborrito romano
per questa oscura via passare occulto d'Emirena ai soggiorni.
Un suo seguace, complice del segreto, mel palesò.
Fra questi eroi del Tebro l'oro ha trovato un traditore.
Al varco, travestito in tal guisa, io l'aspettai,
fin che passò col servo, e lo svenai.
(Chi sarà quel roman? Stringe un acciaro, e sanguigno mi par.)
(Potessi in volto mirarlo almeno.)
Fra quelle piante nascosto attendi. Io tornerò di volo.
Sollecito ritorna, o parto solo.
Questo... No. Quel sentier.... Sì, questo eleggo.
- Fermati, traditor! - Numi, che veggo!
Impedite ogni passo alla fuga, o custodi.
- Io son di sasso. - (Ah, siam scoperti! )
Istupidisci, ingrato, perché vivo mi vedi?
Il silenzio t'accusa.
Olà! Si tragga nel carcere più nero il delinquente.
Fermatevi! Sentite: egli è innocente.
Principessa, che fai?
Stelle! Tu ancora qui con Farnaspe? E il traditor difendi?
Ei non è traditor. Fra quelle fronde...
- Taci! - ...l'empio s'asconde,
che spinse a' danni tuoi l'acciar rubello.
(Oh Dio! Non sa che il genitore è quello.)
Vedilo, Augusto.
È ver, son io.
Ah, padre!
Il re de' Parti in abito romano!
E quanti siete, scellerati, a tradirmi?
Io solo, io solo ho sete del tuo sangue.
Il colpo errai; ma, se mi lasci in vita, il fallo emenderò.
Alma rea! Troppo abusi della mia sofferenza.
Olà, ministri, in carcere distinto alla lor pena
questi rei custodite.
Anche Emirena?
Sì, ancor l'ingrata.
Ah, che ingiustizia è questa!
Qual delitto a punir ritrovi in lei?
Tutti nemici e rei,
tutti tremar dovete:
perfidi, lo sapete, e m'insultate ancor?
Che barbaro governo fanno dell'alma mia
sdegno, rimorso interno, amore e gelosia!
Non ha più Furie Averno per lacerarmi il cor.
Tutti nemici e rei, tutti tremar dovete:
perfidi, lo sapete,
e m'insultate ancor?
Padre... Oh Dio!
Con qual fronte posso padre chiamarti io, che t'uccido?
Deh, se per me t'avanza...
Parti,
non assalir la mia costanza.
Ah, mi scacci a ragion. Perdono, o padre;
eccomi a' piedi tuoi.
Lasciami, o figlia.
No, sdegnato non sono; t'abbraccio,
ti perdono. Addio,
dell'alma mia parte più cara.
Oh addio funesto!
Oh divisione amara!
Quell'amplesso e quel perdono,
quello sguardo e quel sospiro
fa più giusto il mio martiro,
più colpevole mi fa.
Qual mi fosti e qual ti sono
chiaro intende il core afflitto,
che misura il suo delitto
dall'istessa tua pietà.
Quell'amplesso e quel perdono,
quello sguardo e quel sospiro
fa più giusto il mio martiro,
più colpevole mi fa.
Almen tutto il mio sangue
a conservar bastasse il mio re, la mia sposa.
Amico, assai debole io fui.
Non congiurar tu ancora contro la mia fortezza.
Abbia il nemico il rossor di vedermi maggior dell'ire sue.
Nell'ultim'ora
cader mi vegga e mi paventi ancora.
Leon piagato a morte sente mancar la vita,
guarda la sua ferita, né s'avvilisce ancor.
Così nell'ore estreme rugge, minaccia e freme,
che fa tremar morendo tal volta il cacciator.
Leon piagato a morte
sente mancar la vita,
guarda la sua ferita,
né s'avvilisce ancor.
E non ti struggi in pianto,
non ti sciogli in sospiri, o mesto core?
Da così gran dolore ingombro, taci, soffri,
e non ti lagni del tuo destin tiranno?
Dunque nol senti?
Ah no: questo è l'inganno.
Quel tuo silenzio istesso,
che stupido ti rende, mi fa tremar, ed a ragion
pavento che, lo stupor cessato, t'opprima a un colpo solo il tuo tormento.
Torbido in volto e nero,
senza che tuoni il cielo,
tacito e gonfio appare
senza alcun vento il mare,
e in petto al passeggero il cor fa palpitar.
In quell'orrore ascoso il turbine s'appresta;
e quel silenzio è segno di prossima tempesta,
che van destando i venti racchiusi in seno al mar.
Torbido in volto e nero,
senza che tuoni il cielo,
tacito e gonfio appare senza alcun vento il mare,
e in petto al passeggero il cor fa palpitar.
Vedo l'aria che s'imbruna;
una stella non compare.
Si è nascosto il sol, la luna.
Che sarà? Che sarà?
Quanto va, ch'io l'indovino?
Vorrà piovere e tuonar.
Par che ci pigli gusto.
Non vorrei che, fingendo, fingendo, davvero poi, siccome dir si suole,
avessi a dar di volta alle carriole.
Ci vuol pazienza.
Sol con quest'astuzia scampar potea da morte.
Ma sento gente. All'erta! È Livietta.
A tempo, a tempo. Chi la fa, l'aspetta.
Chi è costui?
Par mi Tracollo.
È desso.
Ma come in queste spoglie, sciolto dai lacci suoi?
Ah, Marte, Marte,
- intendo i pensier tuoi, ma la sbagli. - Che dice?
O è pazzo, o il finge.
Vo' rintracciarne il vero.
Galantuomo?
Ah, ah! Non disturbate le nostre conferenze,
che abbiamo colle stelle. Che bramate?
Niente, niente, signore. (Vo' secondarlo.)
Venite qua: vogliamo consolarvi.
Che v'occorre? Parlate.
Ma pria d'ogni altra cosa, baciate questa mano.
- Ben volentier. - Sapete chi son io?
- Se non mel dite... - Sono...
Sono il Gran Chiaravalle di Milano.
E che andate facendo per questi luoghi ombrosi e solitari?
Componendo lunari, diari, calendari, lampadari,
montanari.
E il vostro nome, ninfa vezzosa?
Come! Voi non siete astrologo?
- Sì, bene. - E nol sapete?
Non già, non già.
De minimis non curat praetor.
Dunque, sarò io più astrologa di voi.
- Perché? - So il nome vostro.
S'io tel dissi, cor mio: Don Chiaravalle.
Ma non diceste il ver. Voi vi chiamate...
Vi chiamate Tracollo.
Mi chiamai, vuoi dir: che or più non vivo.
Sì, son l'ombra di lui,
che, invendicata, passar non posso l'onda del pigro Lete
e andare all'altra sponda.
(Come ben finge! Or vo' chiarirlo.)
Ah, vieni, vieni, mia crudele omicida,
e al regno d'Acheronte omai mi guida.
- Olà, le mani a voi! - Taci, taci
e vieni, spietata. Senza di te, da me mai,
mai, mai non si varca di Stige il fiume.
A noi, a noi! Alla barca, alla barca!
Deh, per amor del cielo!
- Tocca, tocca! - Lasciami...
- Maramao! - ...almen per un momento...
- Ti raccomandi invano. - ...prendere un po' di fiato.
- Non ci sento. - Non posso più.
- Crepa! - Son morta. - Schiatta!
Quando arriviamo?
Ah, ci vuol tempo ancora!
(Se non la vinco, al men vo' farla patta.)
Chi mi porge ristoro?
Aiuto...
In cortesia...
Ch'io manco, io moro.
Caro, perdonami,
placa lo sdegno;
la destra stringimi di pace in segno.
Ti lascio,
addio; Tracollo mio,
di Livietta non ti scordar.
Ah! Pria che morte mi chiuda i lumi,
severi numi, se giusti siete,
per poco il senno voi gli rendete,
sicché più veda,
per sua vendetta,
l'alma spirar.
Caro, perdonami, placa lo sdegno;
la destra stringimi di pace in segno.
Ti lascio, addio; Tracollo mio,
di Livietta non ti scordar.
La credo o non la credo?
M'accosto o non m'accosto?
Divento mollo o mi mantengo tosto?
Temo non me la ficchi.
È troppo, troppo scaltra.
È vero da una parte,
ma dall'altra mi muove a compassione.
Il timor, lo strapazzo
potea farla svenir.
Che tentazione!
Ora non occorre altro: l'ho pensata.
Vo' accostarmi pian piano,
e se la vedo fare un piccolo moto,
ritorno a fare il pazzo, e non la credo.
Non si muove,
non rifiata.
Chiusi ha gli occhi,
freddo il naso.
Saria pure il brutto caso.
Vo' chiamarla: Livietta!
Sull'erbetta alla fransé.
Si è quietata.
Quei tremori forse son gli ultimi tratti.
Sfortunata! È già spirata.
È spirata.
Oh, mia bella morticella, Livietta, bella, bella.
Sol, sol, fa, fa, mi, sol, do, do, re...
Ah, Livietta mia, or sei soverchia.
E quando?
O sbrigati a morir, o sorgi e vivi.
Par che patisca anch'io di moti convulsivi.
Questo è stato certo l'ultimo suo sospir.
Se n'è andata; non v'è più dubbio.
Ho fatto la frittata!
Deh, aspetta, anima bella;
ascolta prima le mie discolpe.
Se mi finsi pazzo, fu per salvar la pelle,
e non credevo che quel poco di strapazzo, che ti diedi
per meglio colorir la finzione, avesse da condurti...
Ah, ribaldone!
- Questo ancor sai fare! - Il cor me lo diceva.
Colle mie mani mi dovrei strozzare!
Adesso, adesso t'aggiust'io.
No, ferma!
Voglio io stesso render paghi i desir tuoi.
Poiché morto mi vuoi, non ricuso morir.
Coi piedi miei vado a ripormi in man della giustizia.
Or lo vedrai. Ma prima sappi che ascosa io serbo
gran copia di denar sotto a quell'albero. Vedilo bene.
A te lo lascio,
e insieme, udite tutti, udite,
erbette, fronde, fiori,
tigri, pantere, lupi, orsi, cinghiali, pecore e pastori,
voi siate testimoni dell'estrema mia volontà:
ti lascio questo core,
pegno dell'amor mio; non strapazzarlo più!
Tiranna,
tiranna, addio.
Mi muove a riso ed a pietade insieme.
Senti...
Che cosa vuoi?
M'ami tu veramente?
Ti pare? Fa' conto che tu l'abbia a giudicare.
Non vorrei... Basta.
Or via! Quello ch'è stato è stato.
Se prometti cangiar vita
e lasciare quest'infame mestier, sarò tua sposa.
- Tel giuro! -Avverti a te!
Che serve? È ita la mia parola.
Orvia, ecco la man.
Torno da morte a vita. Benedetta finzione!
- Sarai uomo dabben? - Dabbenissimo.
- Fedele alla tua moglie? - Fedelone.
E tu, moglie amatissima, sarai fida al tuo sposo?
Fedelissima.
Sempre appresso qual palomba al suo caro palombaccio
ti starò dicendo cru...
crudelaccio, vieni a me.
Sempre appresso qual montone all'amata pecorella
ti verrò dicendo be...
bella, bella vengo a te.
- Oh, che gusto! - Che diletto!
Per la gioia il core in petto io mi sento liquefar.
Come! Ch'io parta?
A questo segno è cieco;
è ingiusto a questo segno?
E di qual fallo vuol punirmi Adriano?
Ei sa che fosti d'Emirena e Farnaspe consigliera alla fuga.
Oh dèi!
- Ma deggio dipartir senza vederlo? - Appunto.
- E quando? - Già le navi son pronte.
Un tal comando ubbidir non si deve.
Ah no. Ti perdi. Parti; fidati a me.
Lo vincerai non resistendo.
Io cercherò il momento
di farlo ravveder.
- Ma digli almeno... - Va' senz'altro parlar,
t'intendo appieno.
Digli ch'è un infedele; digli che mi tradì.
Senti: non dir così.
Digli che partirò;
digli che l'amo.
Ah, se nel mio martir lo vedi sospirar,
tornami a consolar;
ché prima di morir di più non bramo.
Digli ch'è un infedele; digli che mi tradì.
Senti: non dir così.
Digli che partirò;
digli che l'amo.
Io la trama dispongo perché parta Sabina,
e poi m'affanno nel vederla partir.
Pensa, o mio core, che la perdi, se resta.
Ella risveglia d'Augusto la virtù.
Soffrir non puoi l'assenza del tuo bene;
ma, se lieto esser vuoi, soffrir conviene.
Contento forse vivere nel mio martir potrei,
se mai potessi rendere il sol degli occhi miei
fedele all'amor mio, fedele a questo cor.
Ma se vicino ei resta
a quella che l'accende, gradita antica face,
come sperar mai pace,
come sperare amor?
Contento forse vivere nel mio martir potrei,
se mai potessi rendere il sol degli occhi miei
fedele all'amor mio, fedele a questo cor.
- Aquilio, che ottenesti? - Nulla, signor.
Ad ubbidirti inteso, non trascurai ragione per trattener Sabina.
È risoluta, e vuol partir.
Deh, pensa adesso a porre in uso il mio consiglio.
Un cenno d'Osroa sarà bastante perché t'ami Emirena.
Ella ti sdegna per non spiacere al padre,
e al padre al fine parrà gran sorte
il ricomprarsi un regno con le nozze di lei.
Senti. E se poi...
- Non più dubbi, signor. - Fa' quel che vuoi.
Che dir può il mondo?
Al fine il conquistar la vita è ragion di natura:
e in tanta pena io viver non potrei senza Emirena.
- Che si chiede da me? - Che il re de' Parti sieda
e m'ascolti.
Osroa, nel mondo tutto è soggetto a cambiamento,
e strano saria che gli odi nostri soli fossero eterni.
Al fin la pace è necessaria al vinto,
utile al vincitor.
Sappi che sei arbitro tu del mio riposo,
appunto qual son io dei tuoi giorni.
Sol che tu parli, la principessa è mia;
sol ch'io lo voglia, tu sei libero e re.
Se la bella Emirena meco non veggo in dolce nodo unita,
non ho ben, non ho pace
e non ho vita.
Quando basti sì poco a renderti felice,
io son contento che si chiami la figlia.
Olà; togliete quelle catene al re de' Parti.
Ancora non è tempo, Adriano.
Io goderei prima dei doni tuoi che tu dei miei.
- Bellissima Emirena... -A lei primiero
- meglio sarà ch’io tutto spieghi. - E vero.
- Che dir mai vuoi? - Quella fiamma vorace...
- Lasciami terminar. - Come a te piace.
Tal virtù nei tuoi lumi raccolse amico il ciel,
che, fatto servo, il nostro vincitor
odia la vita senza di te, che per suo nume adora.
Tu dunque puoi...
Non ho finito ancora.
Mi fa morir questa lentezza.
Io voglio... Sentimi, o figlia,
e scolpisci questo del genitor ultimo cenno nel più sacro dell'alma.
Io voglio almeno in te lasciar, morendo, la mia vendicatrice.
Odia il tiranno, com'io l'odiai finora;
e questa sia l'eredità paterna.
Osroa, che dici!
Né timor, né speranza t'unisca a lui;
ma forsennato, afflitto vedilo a tutte l'ore
fremer di sdegno e delirar d'amore.
Giusti dèi! Son schernito.
Parli Cesare adesso:
Osroa ha finito.
Fra poco assiso in trono
Cesare parlerà.
Qual deve, risponderà:
al delinquente il giudice,
al vinto il vincitor.
Sdegnasti il mio perdono: tardi ten pentirai,
invan detesterai l'ingiusto tuo furor.
Fra poco assiso in trono
Cesare parlerà.
Qual deve, risponderà:
al vinto il vincitor.
Misera, a qual consiglio appigliarmi dovrò?
- Corri, Emirena. - Dove? -Ad Augusto. - E perché mai?
Procura che il comando rivochi contro il tuo genitore.
Qual è?
Vuol che, traendo delle catene sue l'indegna soma, vada...
- A morte? - No. Peggio.
- E dove? -A Roma.
E che posso a suo pro?
Va', prega, piangi, offriti sposa ad Adriano:
oblia i ritegni, i riguardi, le speranze e l'amor.
Tutto si perda, e il re si salvi.
Egli pur or m'impose d'odiar Cesare sempre.
Ah, tu non devi un comando eseguir dato nell'ira.
Osroa perisce, mentre pensiamo a conservarlo.
-Addio. - Ascoltami.
- Che vuoi? - Va'...
Ferma... Oh dèi!
Vorrei che mi lasciassi, e non vorrei.
L'estremo pegno almeno ricevi in quest'addio,
un pegno ricevi del mio costante amor.
Strappar mi vuoi dal seno, con dir così, ben mio,
strappare mi vuoi a viva forza il cor.
- Vanne. - Ti lascio.
Ah, senti...
Che pena! Parla, o caro.
Ricordati di me.
Oh Dio, che tanto amaro
forse il morir non è.
Ah, non dicesti il vero,
ben mio, quando dicesti
che sol per me nascesti,
ch'io nacqui sol per te.
L'estremo pegno almeno ricevi in quest'addio,
un pegno ricevi del mio costante amor.
Strappar mi vuoi dal seno, con dir così, ben mio,
strappare mi vuoi a viva forza il cor.
- Vanne. -Addio.
- Senti. - Parla.
Oh, che tanto amaro
forse il morir non è.
Ti lascio. Addio, caro.
Ben mio.
Ricordati di me.
Oh Dio, che tanto amaro
forse il morir non è.
- Sabina, ascolta. -Ahimè!
Numi! E che chiedi?
A questo segno dunque odioso ti son io,
che partir vuoi senza vedermi?
Ah no! Non schernirmi ancora.
Mi discacci, mi vieti di comparirti innanzi...
Io? Quando?
Aquilio, non richiese Sabina la libertà d'abbandonarmi?
Oh dèi!
Non fu cenno d'Augusto ch'io dovessi partir senza mirarlo?
Se parlo, mi condanno, e se non parlo.
- Ola! Costui sia custodito. - Avversa sorte!
E meco rimanga la mia sposa.
Io sposa! E quando?
Fra poco. Non domando che tempo a respirar.
- Ah, Cesare, pietà! - Pietà, signore!
- Di chi? - Del padre mio. - Dell'oppresso mio re.
Roma, il Senato deciderà di lui.
Dunque non curi d'Emirena che piange,
ch'è tua sposa, se vuoi?
Sposa?
Ah, ch'io ben conosco tutto quel cor.
No, no. L'odio paterno, il laccio suo primiero è troppo forte.
Mi sarebbe nemica ancor consorte.
No, Cesare, t'inganni.
Il dover mio farà strada all'amor.
Rivoca il cenno,
perdona al genitore,
per questa invitta mano, che è sostegno del mondo,
che bacio e stringo e del mio pianto inondo.
Augusto,
io veggo, e 'l vede purtroppo ognun,
che t'affanni invano per renderti a te stesso.
D'ogni doverti sciolgo, ti perdono ogni offesa,
ed io stessa sarò la tua difesa.
Anima generosa,
degna di mille imperi! Anima grande!
Qual sovrumano è questo esempio di virtude?
Ecco, mi desto da quel vile letargo ond'era avvolto:
son disciolto, son mio.
In questo giorno tutti voglio felici.
Ad Osroa io dono e regno e libertà;
rendo a Farnaspe la sua bella Emirena;
Aquilio assolvo d'ogni fallo commesso;
e a te, degno di te, rendo me stesso.
- Oh gioie! - Oh tenerezze!
Oh contento improvviso!
Ecco il vero Adriano.
Or lo ravviso.
S'oda, Augusto, infin sull'etra
il tuo nome ognor così;
e da noi, con bianca pietra,
sia segnato il fausto dì.