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Credo che prima di tutto si debba chiarire cos'è la cooperazione sociale
e credo sia giusto chiarirlo perché non tutti sanno cosa sia. Nella maggior parte dei casi,
quando si parla di cooperazione sociale, si pensa al volontariato e la cooperazione sociale
oggi non è più solo volontariato. È anche, volontariato. Ma la cooperazione sociale
sta sempre di più gestendo i servizi del welfare per conto delle strutture pubbliche.
È un'esperienza certamente importante, che dura ormai da trent'anni, però
rappresenta, almeno per il Veneto, ancora abbastanza precarietà.
Precarietà perché chi non ha idee, chi non riesce a fare impresa,
lavora ancora con appalti e tempi di lavoro abbastanza definiti, e quindi precari.
Una ventina di anni fa, la nostra idea è stata quella di cercare di promuovere
una cooperativa che fosse sì partner, nel welfare del territorio, ma che cercasse
di innovare i servizi, con un'idea guida:
alla persona svantaggiata puoi dare tutti i servizi che vuoi, ma se non la fai uscire dall'assistenza
questa non avrà mai la sua dignità. Quindi abbiamo cercato di coinvolgere
prima il territorio e poi anche gli enti locali e gli enti pubblici in un'idea progetto
che non fosse quella di avere le persone con un buon servizio di qualità nei centri diurni,
(in cui magari di giorno si costruiva qualcosa poi di sera si distruggeva
per ricostruire il giorno dopo) ma, invece, si andasse a costruire
un'idea progetto in cui le persone si riabilitavano verso l'inserimento lavorativo.
E qui chiaramente c'è anche un'altra storia: in questa Italia,
ma anche in altri paesi europei, si è sempre pensato all'inserimento lavorativo
attraverso forme d'obbligo, cioè l'imposizione all'impresa di assumere la persona svantaggiata.
E nella maggior parte dei casi, l'impresa subisce sì l'assunzione, senza però investire
su quella persona, dandogli quindi dignità, ma ritenendolo come una tassa
da pagare, cioè un posto da pagare. Quindi oltre alla voglia di riabilitazione,
di superare questo concetto di tassa obbligatoria,
di superare il lavoro da precari, si è detto: cerchiamo di avviare queste attività
riabilitative diurne, in cui la persona da riabilitare, insieme agli psicologi,
agli educatori e agli operatori, produce un qualcosa di vendibile. E da qui siamo partiti
a fare riabilitazione. Dandoci obiettivi non economici, ma, diciamo,
riabilitativi. Nel tempo abbiamo raggiunto un primo obiettivo: abbiamo capito
che queste persone fortemente disturbate (noi lavoriamo nell'area della salute mentale),
si attaccavano a questo modello riabilitativo
e venivano, erano presenti ogni giorno. Sono presenti ogni giorno. E da lì abbiamo capito
che, trovando un sistema che rispetti il rapporto con la persona,
in primo luogo queste persone non erano più nel territorio a disturbare,
E secondo incominciavano a rispettare le regole, cioè gli orari, e il rapporto del lavoro
affiancato al cosiddetto normodotato, cioè in una condizione normale.
Attraverso questa normalità, chiamiamola così, abbiamo visto che
se queste persone erano abituate ad avere 40, 50, 60 giornate di ricovero ospedaliero
annuale, queste erano crollate e oggi siamo a livelli
di circa l'85-90% di ricoveri ospedalieri in meno, chiaramente
delle persone che abbiamo in carico. In questo caso la riabilitazione si paga attraverso
i mancati ricoveri, quindi non è l'Ente Ospedaliero, non è l'Azienda Sanitaria, non è
il Comune che paga, ma è la persona che attraverso i mancati ricoveri,
diventa produttore di reddito per riabilitarsi dalla malattia.
In secondo luogo, ci siamo detti: se noi vogliamo mantenerci questa attività
di riabilitatori, o lavoriamo per tendere il nostro cliente verso l'inserimento lavorativo,
o noi prima o poi saremo messi in discussione, quindi il concetto di cui parlavo
prima, superare quella parte di precariato che la cooperazione sociale ha - avremmo avuto
questo rischio, siamo partiti a fare le prime esperienze di inserimento lavorativo
nelle normali aziende del nostro territorio, aziende che avevano accolto
positivamente l'idea di fare queste esperienze, ma abbiamo scoperto che poi
quando queste persone erano inserite nei normali cicli produttivi, e quindi l'azienda
aveva accettato di fare la sperimentazione, a non accettarli,
a creare problemi (chiaramente il diverso veniva preso in giro),
erano i colleghi di lavoro, gli stessi operai. Quindi da lì abbiamo
deciso di dire: inventiamoci le nostre imprese! E da lì, da circa 13 anni, la prima
cooperativa di inserimento lavorativo nostra ha 13 anni, siamo partiti a costruire
queste cooperative in cui ci fossero normodotati del territorio che accettassero
di lavorare insieme con persone svantaggiate, con l'obiettivo di confrontarci
nel mercato. E quando parliamo di mercato, non parliamo di mercato, chiamiamolo,
“che si conosce” e che gestisce la cooperazione sociale, cioè
i servizi pubblici, dal verde alle pulizie, ai diciamo i facchinaggi o altri tipi di servizio.
Abbiamo pensato ad attività industriali che
obbligassero anche la cooperativa stessa a confrontarsi con il cosiddetto mercato normale.
Abbiamo visto che l'esperienza era possibile, tanto è vero che dopo 15 anni
di attività riabilitative, 13 anni di inserimento lavorativo,
questi sono i risultati al 31 dicembre 2009:
18 cooperative di inserimento lavorativo, 1300 occupati, in un territorio di 100.000 abitanti.
Oggi le cooperative sociali che lavorano in rete stretta, quindi insieme, a Castelfranco,
sono la più grossa azienda del territorio, sono l'azienda che nel 2010, in questo secondo anno
di terribile crisi, cresceranno del 13% circa. Quest'anno, leggo per le nostre cooperative,
l'anno scorso abbiamo chiuso con 42.000.000 di Euro di fatturato, quest'anno
chiuderemo con 50.000.000 circa, e abbiamo scoperto un altro risultato:
le aziende che hanno fatto le ristrutturazioni, in quest'ultimo periodo,
stanno iniziando a crescere, ma non cresceranno al proprio interno. Le aziende
stanno cercando nuovi partner all'esterno. Beh, noi ci stiamo candidando
con le aziende per gestire questi nuovi flussi, perché siamo convinti che
possiamo fare economia facendo solidarietà, quindi facendo lavorare gli ultimi, perché
l'altro aspetto importante per noi, in questi ultimi due anni, è quello di non assumere solo
persone svantaggiate riabilitate, ma anche
gli ultimi del nostro territorio. Chi sono gli ultimi del nostro territorio? Sono quelle persone
che hanno - sono state licenziate, a cui è finita la cassa integrazione, che hanno finito
la mobilità, i cinquantenni che nessuno vuole più e con queste persone noi
stiamo sfidando il mercato. Non siamo i più bravi, eh. Sia chiaro. Usiamo il modello
della partecipazione e del confronto. Della partecipazione nel condividere il progetto,
nel rendere coscienti i nostri soci e quindi nel creare responsabilità,
nel lavoro che facciamo, nei prodotti che andiamo a fare e nelle qualità dei prodotti
che offriamo. È questo il meccanismo che ci permette di stare nel mercato,
di continuare a crescere. Perché ho accettato, perché abbiamo accettato oggi
di venire in questo posto? Con le relazioni che ho sentito oggi, quasi quasi volevo darmi in malattia,
nel senso che - però credo che questo modello sia un modello
comunque esportabile, credo che la nostra stessa esperienza
possa essere utile in altri territori, in altri distretti che abbiano la voglia di fare
questo tipo di esperienza. Vi ricordo che in un momento di difficoltà economica come questo,
gli enti pubblici sicuramente tenderanno sempre di più a mettere a disposizione meno risorse,
anche perché non le hanno. Una persona svantaggiata a carico di servizi costa circa
7.000 euro all'anno. Una persona riabilitata che viene assunta e che viene mandata a lavorare
non è più assistita ma è produttore di reddito, paga le tasse e io credo che questa sia
l'idea guida che insieme, chi fa cooperazione sociale, chi ha voglia di fare
impresa sociale, possa iniziare a fare un percorso del genere.
Come ultimo, io credo che poi l'impresa sociale sia quella che fa economia nel territorio,
inventa soluzioni nel territorio. In questi giorni noi abbiamo, grazie anche alla Regione Veneto,
che ha riconosciuto un progetto, abbiamo proposto alla Regione
di intervenire col 30% del costo del salario nei confronti di quei Comuni che inventano
attività straordinarie per avviare quelle persone a zero reddito. E il nostro lavoro,
fatto con i Comuni, è stato quello di convincere questi Comuni di dire alla persona
che non ha reddito (comunque sei costretta a sostenerla): piuttosto facciamo dei lavori,
quei lavori che di solito non fai perché li ritieni non interessanti, ma
vai a investire, vai a migliorare il territorio, l'ambiente, le condizioni abitative. In cambio
dai a queste persone, anziché assisterle, una dignità da lavoratori
e da operatori. Quindi la cooperativa sociale si presenta sì come impresa nel territorio,
e si confronta nel mercato del privato, ma continua a lavorare con il pubblico
per dare dignità, lavoro, forza sempre agli ultimi. Grazie.